Eragon

30/12/2006. Regista: Stefen Fangmeier. Sceneggiatura: Peter Buchman. Interpreti: Edward Speleers, Jeremy Irons, Sienna Guillory, Robert Carlyle, John Malkovich, Djimon Hounsou, Garrett Hedlund, Joss Stone. 104 min. USA. 2006. Giovani.

Eragon è un contadino, rimasto orfano a quindici anni, che trova un giorno una strana pietra di color blu. Da quel momento, la sua vita si riempie di draghi, principesse, orchi, elfi, spade e magia. Molta magia.

Questo film, costato 100 milioni di dollari, traspone su schermo il primo volume della trilogia Il legato, scritta da Christopher Paolini (California, 1983). L’autore -uno di quei ragazzi educati dai genitori a casa loro, una fattoria del Montana-, portò a termine il racconto quando aveva effettivamente quindici anni. I suoi genitori lo hanno pubblicato e sono andati per le scuole, diffondendone la promozione tramite letture e rappresentazioni. Nel 2002, la potente editrice Knopf ha acquisito i diritti, trasformadolo in un best seller negli Stati Uniti, dove ha superato -nelle vendite- Harry Potter. Nel 2005 è stata pubblicata Eldest, la seconda parte. La terza, Empire, è annunciata per il 2008.

Tutti i difetti del romanzo (dialoghi di un’ingenuità totale, personaggi privi di mondo interiore, che agiscono in modo incoerente e arbitrario, trame elementari, eccessi descrittivi di taglio cinematografico, continue contaminazioni da situazioni e personaggi di altri libri e film fantasy) sono presenti nel film dell’esordiente Stefen Fangmeier, un tecnico di effetti visivi che ha elaborato il povero copione di Peter Buchman (Jurassic Park 3), vuoto e trito, privo di sorpresa, permeato di densa volgarità. La messa in scena è irregolare, con una sensazione quasi continua di rigidità. Il classico caso, in cui lo zelo per restare fedele al romanzo si trasforma in trappola mortale.

La magniloquente musica del grande Patrick Doyle cerca di infondere emozione ad un film, che sarebbe stato molto meglio girato da un regista e uno sceneggiatore più abili, capaci di basarsi sugli elementi più attraenti di una storia di avventure con tutti gli ingredienti abituali di quegli eroi, protagonisti di viaggi iniziatici. L’attore principale, un clone di Luke Skywalker, mette uno straordinario impegno nel riuscire insulso, ottenendolo a perfezione. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. (ACEPRENSA)

Casino Royale

30/12/2006. Regista: Martin Campbell. Sceneggiatura: Neal Purvis, Robert Wade, Paul Haggis. Interpreti: Daniel Craig, Eva Green, Mads Mikkelsen. 144 min. USA. 2006. Nelle sale dal 5 gennaio 2007. Adulti. (VXD)

Film numero 21 della saga Bond, iniziata nel 1962, basata sui dodici romanzi e nove racconti dell’inglese Ian Fleming (1908-1964). Casino Royale adatta il primo romanzo di Ian Fleming, scritto nel 1953, dove già si profilano le caratteristiche del personaggio di James Bond, agente dei servizi segreti britannici.

Il neozelandese Martin Campbell (Goldeneye, La maschera di Zorro, Vertical Limit) dirige il suo secondo film della serie Bond, che ha come protagonista -per la prima volta- l’attore inglese Daniel Craig (L’amore fatale, Munich). Campbell ha ottenuto il miglior film della saga, quello di maggiore spessore drammatico. Bond (ben interpretato da un austero e roccioso Craig) è tipo freddo, triste, abbastanza rude. Come in altri film, c’è azione, violenza, erotismo, cinismo e presunzione. Ci sono meno marchingegni, auto super-accessoriate e sfilate -da basso maschilismo- di ragazze esplosive. Lo humour è più presente e succedono lunghe sequenze di azione. C’è perfino qualcosa che si avvvicina all’amore, grazie al personaggio della contabile che interpreta Eva Green. Si sente la mano di Paul Haggis (Crash, Million Dollar Baby, Flags of our fathers) sul copione, che contiene humour, ironia e amenità, e qualche situazione molto ben risolta. La lunghezza del film è eccessiva. Come pure i colpi di scena, la svolta finale e l’abuso di violenza. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, X, D (ACEPRENSA)

Giù per il tubo


30/12/2006. Registi: David Bowers, Sam Fell. Sceneggiatura: Dick Clement, Ian La Frenais, Chris Lloyd, Joe Keenan, Will Davies. Animazione. 84 min. UK. 2006. Giovani. (VD)


Il film di cartoons racconta l’avventura di Roddy St. James, elegante topo aristocratico e scapolo di lusso, che vive in uno dei migliori quartieri di Londra. La sua comoda vita viene troncata quando un topo di fogna invade il suo focolare, lo precipita nel cesso, azionando lo sciacquone. Roddy scoprirà che sotto, nelle fogne, c’è un’altra Londra a misura di topolino, piena di vita.

La terza collaborazione tra DreamWorks e Aardman (Galline in fuga, Wallace&Gromit) produce un buon film, anche se non così riuscito come i precedenti. Si è rinunciato alla plastilina, per generare le figure direttamente al computer. Anche se conservano un aspetto simile alle figure classiche della Aardman, in qualche parte del processo si è perso un po’ dell’incantesimo dei pupazzi britannici. In cambio, si è guadagnato in disegno di produzione: il mondo sotterraneo è una creazione impressionante, piena di acqua di fogna, di colori, di oggetti e personaggi che sarebbe impossibile realizzare con stop motion.

La storia ritrae il solito scapolone egoista, che vive in una gabbia d’oro, scoprendo che gli manca l’essenziale: famiglia e amici. Il tono è decisamente e piacevolmente britannico. I personaggi, interessanti. Ma una volta fatte le presentazioni, il film si trasforma in una estenuante vicenda, scandita da continui colpi di scena, costellata da numerose gags -ce ne sono di molto divertenti, come lo straordinario coro delle lumache- con spunti tratti da vari film e telefilm. Anche se divertente -di certo il pubblico resta sveglio-, l’eccesso di trovate fa perdere quota ad una storia che appariva assai più promettente.

Alle volte lo humour è volgare, pesante, più per adulti che per bambini; ma, dato che tutta l’azione si svolge nelle fogne, poteva, a ragione, scadere ancor di più. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V, D (ACEPRENSA)

Tutti gli uomini del re

30/12/2006. Regista, sceneggiatura: Steven Zaillian. Interpreti: Sean Penn, Jude Law, Anthony Hopkins, Kate Winslet, Mark Ruffalo. 140 min. USA. 2006. Giovani-adulti. (XDV)

Adattamento del romanzo omonimo di Robert Penn Warren del 1946, è già stato portato sul set da Robert Rossen nel 1949, con lo stesso titolo ed eccellenti risultati, tra i quali l’Oscar al miglior film. Steven Zaillian affronta questo remake da regista e sceneggiatore, dimostrando particolare padronanza del mestiere in quest’ultimo ruolo, già in film come In cerca di Bobby Fischer e Schindler List.

La trama racconta l’ascesa politica di Willie Stark, dagli inizi -quando è poco meno di un rozzo principiante dotato di buone intenzioni per migliorare le cose-, fino al suo mandato di governatore dello stato della Louisiana. Il punto di vista narrativo, come nel libro, è affidato a Jack Burden, giornalista privo di valori morali, che da cronista politico di quotidiano si trasforma in colui che svolge la maggior parte del lavoro sporco, per conto di Stark.

Il romanzo è voluminoso e complesso, ma bisogna riconoscere a Zaillian di essere riuscito a realizzare un copione quadrato, che include molte sottotrame dell’originale. Appare, ad esempio, molto riuscito riprodurre il viaggio notturno intrapreso per far visita al giudice Irwin, che struttura la storia. Ciononostante, sembrano carenti alcuni passaggi che si direbbero rimasti esclusi dal montaggio. Principalmente l’incidente occorso al figlio di Stark, nel quale Zaillain traccia un interessante parallelismo con la figura di Adam Stanton. Ad ogni caso, rimane chiaro il messaggio sulla corruzione politica e sul trionfo del lemma immorale “il fine giustifica i mezzi”, cui è difficile resistere, quando vengono meno solidi principi di riferimento.

Il film è corretto ma emana una certa freddezza, quasi trattasse un corpo inanimato. Pur con un eccellente disegno di produzione e un cast impressionante, non riserva molte emozioni. C’è la sensazione che il film avrebbe addirittura guadagnato con attori meno noti. Si vede Anthony Hopkins, e non si può far a meno di pensare: “Ecco, Anthony Hopkins nei panni del giudice Irwin”, invece di: “Ecco un giudice apparentemente giusto, che nasconde qualche segreto del suo passato”. José María Aresté. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-adulti. Contenuti: X, D, V (ACEPRENSA)

Nativity

16/12/2006. Regista: Catherine Hardwicke. Sceneggiatura: Mike Rich. Interpreti: Keisha Castle-Hughes, Oscar Isaac, Hiam Abbass. 101 min. USA. 2006. Giovani.

Dopo il successo del film The Passion si è riscoperto che una storia tratta dai Vangeli favorisce un buon cinema e buoni incassi. Il film di Mel Gibson, anche se ha avuto incassi impressionanti, era cinema d’autore tout court: un film ben pensato e preparato a lungo.

Nativity è un altro tipo di film, un film commerciale di buon livello tecnico, ma senza speciali pretese. Racconta la nascita di Gesù in modo abbastanza convenzionale, centrandosi sul personaggio della Madonna, interpretata dall’attrice australiana di 16 anni Keisha Castle-Hughes, candidata all’Oscar quale protagonista di Whale Rider (La ragazza delle balene), film che interpretò a 12 anni.

Per un cristiano, la nascita di Gesù è un mistero che contiene un tesoro inesauribile di riferimenti soprannaturali. Ciò vale anche per la regista californiana che ha girato -con professionalità- il copione scritto da Mike Rich (Scoprendo Forrester, Mi chiamano Radio). Questo sceneggiatore -cristiano evangelico-, per documentarsi e trascrivere il film, è ricorso alla consulenza dell’organizzazione protestante National Religious Broadcasters ed alla popolare predicatrice evangelica Anne Graham Lotz; ma anche ad un sacerdote cattolico, professore di Teologia all’università di Portland. I due produttori, professionisti di grande esperienza nel cinema (questo dicembre presentano Eragon per la Fox), hanno alle spalle un lungo tirocinio alle dipendenze delle grandi case produttrici, prima di decidere di mettersi in proprio. Uno è evangelico e l’altro, cattolico.

La regista Catherine Hardwicke aveva finora tradotto sullo schermo storie di giovani alle prese con conflitti piuttosto pesanti (Thirteen, Lords of Dogtown). Lei stessa ha detto che Nativity è pur sempre un film che ha per oggetto una adolescente, alle prese con seri problemi. Il talento della regista non è in discussione, ma c’era da chiedersi se poteva risultare all’altezza di un simile progetto. Hardwicke proviene da avi presbiteriani, ma confessa di non essere credente. Ciononostante, ha immediatamente acccettato il progetto. Il film è stato girato tra Matera e il NordAfrica.

La Madonna, personaggio centrale della storia, appare ritratta come ragazza timida e introversa, dal volto timoroso e teso, nella prima ora del film. È strano che una ragazza, apparentemente molto ben voluta e apprezzata a Nazareth, non risponda piu ai saluti e risulti, ora, quasi scontrosa. Certo, è mia opinione che si tratti di un modo alquanto discutibile, probabilmente erroneo, di presentare così -nel copione- il ruolo rappresentato dalla bella e fotogenica Keisha Castle-Hughes.

Probabilmente si è cercato di conferire singolarità al personaggio di Maria, nell’intento di renderlo più interessante, più drammatico. Fatto frequente nel cinema, ma che si scontra con una verità teologica: Dio agisce basandosi nella natura, e la natura di Maria è certo molto singolare, ma perché immacolata: senza peccato. Il ritratto di Giuseppe è più interessante, più normale. In entrambi, Maria e Giuseppe, non appare nulla -anche se c’è qualche traccia- del personale rapporto con Dio, della loro fiducia in Lui. Maria è molto di più dell’eletta, come dice l’angelo in una speciale versione dell’Annunciazione. È la piena di grazia, una creatura che Dio ama a tal punto da decidere che il proprio Figlio sia anche Figlio di lei. Perciò la trasforma nella creatura umana più eminente della storia della salvezza.

Il film, solo con grande difficoltà, rende ragione di tale ruolo: non è facile esprimerlo. Ma cerca di farlo, con molto rispetto e con una delicatezza tale, da evitare una qualsiasi impostazione deformante della verità di fede sulla Vergine Maria.

Per un cattolico che conosca bene le Scritture, alla luce della tradizione e del magistero, ci sono scene che lasciano piuttosto perplessi, anche se non c’è nessuna che metta in dubbio un solo aspetto essenziale della fede. I Re Magi ed Erode sono molto ben delineati, probabilmente i personaggi che le trame esaltano con più maestria.

Se paragoniamo questo film alla storia parallela narrata nel Gesù di Nazareth di Franco Zefirelli, l’opera del regista italiano (copione di Anthony Burgess) è molto superiore da ogni punto di vista anche se, concepita come serial tv per poi essere trasposta al cinema, finisce per offrire un ritmo narrativo troppo discontinuo. Paragonato ai film televisivi della Lux Vide, Nativity ha una messa in scena migliore, ma risulta inferiore ai copioni della Lux.

Nativity è un film di buon livello. Lo si vede con piacere, pur non arrivando -in nessun momento- ad entusiasmare. Invece, per spettatori con scarsa conoscenza del cristianesimo, il film risulta un utile invito a indagarne le fonti. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. (ACEPRENSA)

Happy feet

16/12/2006. Regista: George Miller. Sceneggiatura: George Miller, John Collee, Judy Morris, Warren Coleman. Musica: John Powell. Animazione. 108 min. USA. 2006. Tutti.

Malgrado sia un magistrale ballerino di tip tap, un pinguino imperatore dell’Antartide, Mambo, è respinto dalla sua comunità perché canta molto male. Inoltre, tra quelli della sua specie, questo difetto rende molto difficile trovare il vero amore. Il ribelle Mambo inizia un lungo viaggio, in compagnia di alcuni divertenti e piccolissimi pinguini latini. Durante le loro peripezie, vivranno pericolose avventure e scopriranno il potere distruttivo dell’essere umano.

L’australiano George Miller (Mad Max, L’olio di Lorenzo, Babe va in città) sta mietendo successi in tutto il mondo, grazie a questa esilarante commedia musicale. Come spesso succede nei musical, il copione è schematico e non approfondisce abbastanza i conflitti morali e sociali implicati.

Ad ogni modo, la sua semplice difesa della libertà, dell’amicizia, della creazione artistica e dell’ecologia -davanti ai convenzionalismi sociali- offre una trama abbastanza solida da incantare lo spettatore, grazie allo stupefacente impatto visivo e musicale dello spettacolo.

Sotto il profilo musicale, Happy Feet propone una selezione davvero riuscita di temi classici di ogni tipo -da Frank Sinatra all’hip-hop-, in versioni molto ben interpretate, con arrangiamenti di buon livello e magnifica strumentazione. Le canzoni, unite alla vibrante partitura originale di John Powell, accompagnano alla perfezione la straordinaria integrazione di animazione tridimensionale ed azione reale, fino ad estenuare le tecniche più moderne pensate per la cattura digitale dei movimenti. Ne nasce uno spettacolo di gran valore, sottile nelle interpretazioni gestuali e vocali, e ugualmente coinvolgente: sia nelle sequenze mozzafiato di azione, che nelle strepitose coreografie musicali. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Tutti (ACEPRENSA)

Flags of our fathers

16/12/2006. Regista: Clint Eastwood. Sceneggiatura: Paul Haggis, William Broyles Jr. Interpreti: Ryan Phillippe, Jesse Bradford, Paul Walker, Adam Beach, Jamie Bell. 132 min. USA. 2006. Adulti. (VD)

A 76 anni suonati, Clint Eastwood confeziona un ennesimo film, traendo spunto da una fotografia entrata nel mito: quella dei sei marines che sollevano la bandiera degli Stati Uniti, in cima al monte Suribachi. L’autore dello scatto fu Joe Rosenthal, il 23 febbraio 1945, per l’Associated Press. Era iniziata a Iwo Jima, un’isoletta del Pacifico, quella che sarebbe stata una delle più dure battaglie della seconda guerra mondiale.

L’istantanea, con cui Rosenthal vinse il Pullitzer, ha avuto un effetto decisivo sull’opinione pubblica americana, che vi ha riconosciuto un’icona della vittoria, portando all’apoteosi i sei marines. In quell’occasione, i responsabili del governo americano approfittano della circostanza per portar a termine un’ambiziosa campagna di raccolta fondi. I tre sopravvissuti della foto si ritrovano così, da un giorno all’altro, trasformati in star, idoli di masse presenti in ogni stadio, per chiedere a tutti di comprare i buoni del tesoro, con cui finanziare la guerra. James Bradley, figlio di uno dei soldati, ha pubblicato i ricordi della battaglia e gli effetti della famosa fotografia, nel romanzo Flags of our fathers. Eastwood si è interessato al romanzo, ma tardivamente: Steven Spielberg aveva i diritti dal 2000. Alla fine sono arrivati ad un compromesso: Spielberg resta come coproduttore, mentre ad Eastwood è toccata la regia.

Flags of our fathers rappresenta un certo cambiamento di rotta da parte di Eastwood. Lo sperimentato regista, stavolta penetra un fatto storico, gira un film bellico dotato di rilevante budget (80 milioni di dollari) e, anche se conservando qualcosa, muta il suo tipico fatalismo e la sua consolidata visione dell’uomo, per parlare di eroi. Infatti, anche se una voce fuori campo ci ripete nel finale, forse per evitare che alcuni possano accusare il film di sciovinismo (e almeno in parte l’accusa è fondata), che i protagonisti sono persone ordinarie, dalle immagini appare invece che i soldati sono eroi. Con errori certo, ma eroi. Ciò non impedisce al film di proporre una critica, al contempo feroce, del meccanismo ideologico, politico e propagandistico della guerra. Eastwood tratta duramente chi provoca la guerra, ma salva quanti la combattono.

I primi minuti sono magistrali: la miscela di realismo sia nella battaglia, che nell’ambiente che circonda i soldati, sprigiona un grandissimo pathos. Il problema è che, quando la formula diventa ripetitiva, il film s’impantana. E, tra tante scene interminabili di battaglia, affiorano vari momenti di stanca.

Il cast -composto da attori molto giovani- funziona bene, ma il disegno dei personaggi è meno profondo che in altri film di Eastwood e, alla fine, neanche l’evidente talento di Haggis -che oltre a Crash, ha scritto Million dollar baby- risulta capace di elevare un film bellico, pur con una buona fotografia.

Le sequenze belliche sono spettacolari. Eastwood calca però la mano con la violenza e non evita allo spettatore quasi nessun primo piano raccapricciante. Lo stesso regista ha girato, in contemporanea, un secondo film (Letters from Iwo Jima) che ricrea il conflitto dal lato giapponese. Il copione è di Iris Yamashita e Ken Watanabe ne è il protagonista. Paul Haggis è il produttore esecutivo. La prima sarà il 9 di febbraio del 2007 negli Stati Uniti: da non perdere. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, D (ACEPRENSA)

Déjà vu

16/12/2006. Regista: Tony Scott. Sceneggiatura: Bill Marsilii, Terry Rossio. Interpreti: Denzel Washington, Val Kilmer, Paula Patton, Jim Caviezel, Bruce Greenwood, Adam Goldber. 128 min. USA. 2006. Giovani-adulti. (VS)

Tony Scott prosegue la sua carriera da regista di film commerciali di serie B (è forse già lo si mette troppo in alto) in questo film di problematico rodaggio. Quando l’uragano Katrina distrusse la città di New Orleans, sembra che i suoi ultimi effetti siano riusciti a distruggere anche la scenografia di questa produzione di Jerry Bruckheimer. Solo quando la città ha iniziato a riprendersi, anche il film ha potuto riprendere quota. Il realizzatore è un inglese di 62 anni che abitualmente produce i suoi film, anche se non in questo caso. Perciò bisogna pensare che il potente Bruckheimer sia andato a cercarselo. Il copione lo scrivono il debuttante Bill Marsilii, e l’esperto e popolare Terry Rossio, autore dei serial “Pirati dei Carabi” e “Zorro”.

Denzel Washington ricopre un ruolo molto simile a Man on fire. E riesce penoso -ancora una volta- vedere un attore di talento, invischiato in questa sottospecie di film. Doug Carlin è un poliziotto disilluso e solitario, che viaggia attraverso il tempo per evitare un attentato… ma avviene che s’innamora.

Questa lapidaria sintesi è l’omaggio più gentile che si può sprecare a favore di un film come questo. Tutto il resto, è insipido e pacchiano: una miscela malriuscita e affettata di tecnologia, fantascienza, due inseguimenti, un fuoristrada-camion, capace di provocare l’infarto a qualche ecologista, tre sparatorie, uno psicopatico e una ragazza piuttosto vistosa, inquadrata con la precisione di cui è capace la ripresa da satellite. Tutto girato come uno spot pubblicitario, con montaggio e alcuni effetti post-produzione scontati e ormai davvero superati. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V, D (ACEPRENSA)

Un'Ottima annata

16/12/2006. Regista: Ridley Scott. Sceneggiatura: Marc Klein. Interpreti: Russell Crowe, Albert Finney, Marion Cotillar, Tom Hollander, Freddie Highmore. 118 min. USA. 2006. Adulti. (XSD)

L’unico modo per evitar di raccontare il finale dell’ultimo film di sir Ridley Scott è non dire quasi niente neanche dell’inizio perché, dal primo minuto, già sappiamo come finirà lo spietato broker protagonista del film, impersonato da Russell Crowe: lascerà la Borsa per dedicarsi ad alcuni vigneti, nella Francia della Provence. Poi, secondo i canoni, c’è una storia di famiglia e una pseudo-storia sentimentale. Senza ritegno alcuno e senza scampo, il film finisce, dal primo minuto, sui binari del prevedibile.

Della banalità della trama -di scarso spessore- si può accusare Peter Mayle, un pubblicista amico di Scott che un bel giorno ha chiuso bottega, per andarsi a godere la vita e raccontarla nei suoi romanzi, a metà tra il racconto e la guida turistica.

Allo sceneggiatore di Serendepity è toccato di trasporre su schermo il romanzo di Mayle, senza peraltro riuscire a sottrarre dallo stereotipo i personaggi, che sembrano fuoriusciti non solo da un cartone animato, ma pure di quelli scadenti. I personaggi femminili recitano solo il ruolo di comparse: o nella parte dell’americana sexy e scema, o pure della ribelle e indipendente francesina, che non arriva a finire la cena e già si è arresa allo charme di un Crowe, sempre più macho.

Sì, la Provence è bella, è ben fotografata e non si dovrebbe viverci male, tra tanti luminosi vigneti, ma a forza di ricorrere a mezzi di dubbio gusto (ci sono riprese, effetti di montaggio e accompagnamento musicale più adeguati ad un video clip) e tanto dialogo banale -con pretese di easy-wear-, diventa impresa ardua riconoscere quel grande regista che è stato Ridley Scott. Anche se la cosa non ci stupisce più di tanto: basti ricordare alcuni dei suoi ultimi film. Nella migliore delle ipotesi, forse è incappato, ultimamente, in una serie di cattive annate. Proprio come può succedere al vino in genere. Anche quello della Provence. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: X, S, D (ACEPRENSA)

The Queen

18/11/2006. Regista: Stephen Frears. Sceneggiatura: Peter Morgan. Interpreti: Helen Mirren, Michael Sheen, James Cromwell, Sylvia Syms, Helen McCrory. 97 min. GB, Francia, Italia. 2006. Giovani.

La parola più adatta a definire l’ultimo film di Stephen Frears, The Queen, è: “sorprendente”. Sorprendente per la capacità di entrare in un tema tabù (la morte della principessa Diana) e non farlo in punta dei piedi, ma con somma eleganza, rispetto e perfino equanimità. Sorprendente perché, invece di produrre un documentario, opta per un film convenzionale. E ancora sorprendente, perché va fino in fondo, fin nella camera da letto della Regina d’Inghilterra, e non sprofonda.

Questo, l’argomento. Quando la notizia della morte di Lady D colpisce tutto il mondo, la regina Elisabetta II si ritira dietro le mura del castello di Balmoral, con la famiglia, incapace di capire la risposta massiva e devota del popolo alla memoria di Diana. Quando le dimostrazioni popolari di emozione straripano, tocca a Tony Blair, primo ministro appena eletto, trovare il modo di ricongiungere la Regina ad un popolo sempre più distante dalla sovrana.

Questo originale tema dà luogo ad un film che, da un lato, è pieno di humour e ironia; e dall’altro, offre un saggio notevole di alta politica. Due mondi, apparentemente contrapposti, si vedono obbligati a dialogare. La famiglia Blair è moderna, disinvolta; la moglie è antimonarchica. Entrambi vogliono superare formalismi e rigidità istituzionali. La famiglia reale è attaccata alle sue consuetudini ancestrali, nonché riluttante a qualsiasi cambiamento o innovazione.

Questo contrasto è magnificamente gestito da Frears e dagli attori protagonisti, Helen Mirren e Michael Sheen, che superano a pieni voti il compito davvero improbo di rappresentare personaggi così noti. Un autentico gioiello della cinematografia di questo grande specialista che è Stephen Frears. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. (ACEPRENSA)

Il vento che accarezza l'erba

18/11/2006. Regista: Ken Loach. Sceneggiatura: Paul Laverty. Interpreti: Cillian Murphy, Padraic Delaney, Orla Fitzgerald, Liam Cunningham, Roger Allam. 127 min. GB. 2006. Adulti. (VS)

Alcuni contadini diventano guerriglieri, per combattere le truppe britanniche inviate in Irlanda a soffocare le aspirazioni indipendentiste che hanno preso nuovo vigore, dopo l’insurrezione del 1916. Il protagonista principale è Damien, studente di Medicina che abbandona la carriera, per le armi.

Ken Loach, veterano regista inglese nato nel 1936, ha ottenuto la Palma d’Oro al miglior film, nello scorso Festival di Cannes proprio con questa pellicola, ambientata in Irlanda, negli anni immediatamente precedenti la guerra d’indipendenza del 1922. Nel 1990, Loach aveva già vinto il premio speciale della giuria di Cannes con L’agenda nascosta, che focalizza l’attività della polizia britannica contro l’IRA, nell’Irlanda del Nord. Nel 1995, Loach aveva diretto Terra e libertà, un film sui miliziani anarchici nella guerra civile spagnola, altro tema storico -a lui caro- come egli stesso confessa. Loach non ha mai vinto, invece, un premio BAFTA, assegnato al cinema del Regno Unito.

Conviene ricordare questi precedenti, perché così è più facile capire come mai la giuria del festival francese abbia concesso un premio così importante ad un film come Il vento che accarezza l’erba (suggestivo titolo desunto da un poema di Robert Dwyer Joyce, scrittore irlandese del secolo XIX). Si tratta di un melodramma molto ideologizzato, che racconta vicende note, già ispiratrici di vari racconti, reso in un modo piuttosto elementare, viscerale e sentimentalista, con scarse sfumature. Predomina una visione molto superficiale, alle volte veramente con toni retorici da pamphlet. In compenso, gli standard di qualità tecnica e interpretativa del film sono buoni.

Che il cinema di Loach -un marxista vetero-leninista- sia ideologico risulta evidente, tanto dai suoi film sulla working class britannica, come dalle sue incursioni nel cinema d’epoca. Questo film risponde perciò ai canoni del più puro cinema di propaganda (Loach se la prende con quello che lui chiama l’attuale “imperialismo anglo-nordamericano”). In tal senso, le sue grossolane semplificazioni appaiono in diretta continuità con i prodotti del cinema sovietico. Coloro che hanno percepito la superficialità e mancanza di rigore in Terra e libertà che contraddistingue il suo mediocre approccio all’anarchismo spagnolo, troveranno il solito Loach: né migliore, né peggiore. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, S (ACEPRENSA)

I figli degli uomini

18/11/2006. Regista: Alfonso Cuarón. Sceneggiatura: Alfonso Cuarón, Timothy J. Sexton, David Arata. Interpreti: Clive Owen, Julianne Moore, Michael Caine, Chiwetel Ejiofor, Charlie Hunnam. 109 min. GB, USA. 2006. Giovani-adulti. (VD)

Il regista messicano Alfonso Cuarón aveva accettato di adattare liberamente il romanzo di P.D. James I figli degli uomini, attratto da una singolare profezia: un futuro prossimo venturo, l’anno 2027, con un umanità in pericolo di estinzione. Causa: l’infertilità delle donne.

Da un’idea cosi suggestiva, emerge una parabola di un avvenire niente affatto promettente, che presenta inquietanti similitudini con l’attuale panorama di flussi migratori e chiusure di frontiere, manifestazioni di radicali e movimenti no-global, con la disumanizzazione dell’uomo al centro della vicenda.

Il film prende le mosse da un personaggio grigio e intristito, cui si rivolge la ex-moglie, attivista di uno di questi gruppuscoli non governativi che anelano, in qualche modo, ad un mondo migliore. Con riluttanza si trasformerà in guardia del corpo di una donna che, in modo inatteso, rimane incinta. Questo responsabilità non cercata, restituirà loro, poco a poco, la speranza perduta.

Giustamente si può definire Cuarón come un narratore di racconti: La piccola principessa, Paradiso perduto (Great expectations), Harry Potter e il prigioniero di Azbakan… Perfino il sopravvalutato racconto iniziatico Y tu mamá también (Anche tua madre) rientra in questa sua prerogativa. I figli degli uomini è una storia semplice, che presenta uno scenario apocalittico di uomini stanchi e senza riferimenti, permettendogli di ritrovare la gioia del giorno per giorno.

Le lacrime silenziose iniziali, causate dalla morte violenta dell’uomo più giovane del pianeta, stigmatizzano una perfetta sintesi della situazione di rifiuto di amore e di valore alla vita. Si passa poi al vuoto esistenziale del protagonista, il laconico ed efficace Clive Owen, e all’occhiata nostalgica sul mondo hippie del personaggio di Michael Caine, coltivatore di marijuana che si lamenta del mondo, ma senza far molto per cambiarlo.

In alcuni momenti il film si direbbe ripetitivo, con le sue numerose scene di inseguimenti o di caos, ma la potenza prospettica del regista e del sua consueta spalla operativa -Emmanuel Lubezki- è tale, che la trama elementare sta in piedi. Speciale attenzione meritano le scene, in cui la visione di un bambino commuove coloro che un attimo prima si stavano combattendo (anche se trattasi di sentimento effimero) e della nave nella nebbia. José María Aresté. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-Adulti. Contenuti: V, D (ACEPRENSA)

The lost city

18/11/2006. Regista: Andy Garcia. Sceneggiatura: Guillermo Cabrera Infante. Interpreti: Andy Garcia, Bill Murray, Inés Sastre, Dustin Hoffman, Steven Bauer. 143 min. USA. 2005. Giovani. (VSD)

L’Havana, fine anni ‘50, secolo scorso. I Fellove sono una famiglia della borghesia che si divide davanti alla situazione politica, provocata dalla dittatura di Batista. Don Federico, prestigioso professore di Diritto, confida in un’evoluzione pacifica verso la democrazia. Ma i figli minori, Ricardo e Luis, sostengono, ciascuno a modo suo, il movimento rivoluzionario diretto da Fidel Castro e dal “Che”. In mezzo, resta il figlio maggiore, Fico, proprietario del cabaret El Tropico, che cerca di mantenere una posizione neutrale, rischiando invece la pelle per aiutare gli uni e gli altri.

Certamente García si dilunga troppo, non controlla totalmente la progressione drammatica del film –che fluttua eccessivamente-, permette alcuni dialoghi eccessivamente artificiosi, nonché abusa sporadicamente del ricorso alla musica nella sua valenza simbolica. Ma è pur vero che trae il massimo profitto dal copione originale di Cabrera Infante -di grande spessore letterario- e nonostante le limitate risorse tecniche a sua disposizione. Garcia offre un ritratto attraente e ponderato dell’Havana fine anni ‘50, e dei diversi “tipi” esemplari che la costellavano.

Alcuni hanno criticato il tono quasi grottesco con cui il film ritrae la figura del dittatore Batista e dei suoi sanguinari sgherri, ma anche un mistificato “Che” Guevara. In realtà, la brutalità e stravaganza di questi personaggi è molto ben documentata. Tra questi estremi, ricchi di particolari aneddotici, il film sviluppa una riflessione serena, sincera e sentita sull’insostenibile disuguaglianza sociale che esisteva a Cuba, sull’ambigua influenza degli Stati Uniti -molto ben rappresentata dal mafioso Meyer Lansky (Dustin Hoffman) e dal sarcastico anonimo comico (Bill Murray)-, sul ruolo decisivo che ha avuto la classe media nella caduta di Batista, e infine, nel tragico inganno della rivoluzione castrista.

Tutto ciò è abilmente articolato nel copione, grazie al ricorso ad una storia di amore impossibile, con evidenti accenni a Casablanca e al Dottor Zivago. García ottiene una buona resa dal film, in virtù di una solida direzione di attori e di una messa in scena che si sforza costantemente di cavar fuori la massima espressività ad ogni inquadratura, ad ogni movimento di macchina da presa, ad ogni simbolismo onirico-musicale fornito dalle 40 e più canzoni che danno vita alla colonna sonora del film. Non sempre ci riesce, ma García merita un plauso per questo suo desiderio di coinvolgere lo spettatore nella storia, commuoverlo con la musica cubana e farlo meditare sulle sue riuscite riflessioni politico-sociali, che sempre emergono a fior di pelle in ciascuno dei personaggi. Anche dei più disumani. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V, S, D (ACEPRENSA)

The departed

28/10/2006. Regista: Martin Scorsese. Sceneggiatura: William Monahan, Wai Keung Lau, Siu Fai Mak. Interpreti: Leonardo DiCaprio, Matt Damon, Jack Nicholson, Mark Wahlberg, Martin Sheen, Ray Winstone, Vera Farmiga, Alec Baldwin, Anthony Anderson. 152 min. USA. 2006. Adulti. (VXD)

In film come New York Stories, Quei bravi ragazzi, Casinò, o Gangs of New York, Martin Scorsese ha già manifestato la sua cruda visione dei gruppi mafiosi operanti negli Stati Uniti e dei tentativi di infiltrazioni nella controparte: la polizia. Tentativi a loro volta ricambiati. E questa reciprocità costituisce l’argomento centrale di The Departed, adattamento libero del film di grande successo Infernal Affairs (2002), di Wai Keung Lau e Siu Fai Mak.

L’azione gira intorno a Frank Costello, il potente e crudele capo-mafia di Boston. Per farla finita con Frank, il Dipartimento di Polizia del Massachussetts inserisce nell’entourage di Costello un infiltrato: il giovane poliziotto Billy, idealista e pronto a rischiare di persona, originario dello stesso quartiere del mafioso. Ma il mafioso, in contemporanea, infiltra nell’Unità Indagini Speciali della Polizia Federale Colin, altro giovanotto del sud di Boston, ora trasformatosi in prestigioso agente di polizia.

Oltre la crescente angoscia che accomuna gli infiltrati, per la doppia vita cui devono sottoporsi, questo film di Scorsese preferisce, a differenza di altri film dello stesso genere, ribadire la tipica e topica connection tra poliziotti corrotti e mafiosi crudeli, così ricorrente nel genere poliziesco. Inoltre, il crescente fatalismo della trama -con il conseguente inasprirsi di violenza, sordidezza e scene osé- finisce per diventare irritante e artificiosa: troppo somigliante al cocktail impiegato da Scorsese in altri suoi film. Ne deriva una scarsa verve drammatica e morale del copione, nonché una desolata crudezza capaci di svalutare l’eccellente regia di attori e la coinvolgente messa in scena, dove Scorsese si conferma nel dominio delle inquadrature, nella mobilità delle riprese e nelle forme di transizione, di azioni in parallelo, di effetti di montaggio… In questo senso, The Departed è un brillante esercizio di stile, classico e moderno al contempo, ma non rientra nel novero dei migliori film del veterano regista di New York. Jeronimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, X, D (ACEPRENSA)

Water

28/10/2006. Regista, sceneggiatura: Deepa Mehta. Interpreti: Seema Biswas, Lisa Ray, John Abraham. 115 min. India, Canada. 2005. Giovani-adulti. (SD)

Deepa Mehta, regista indiana di 55 anni, residente a Toronto dal 1973, chiude con Water la sua trilogia degli elementi (Fire, Earth). E lo fa con una commovente e bella storia relativa alla penosa situazione in cui versano le vedove, nel suo paese di origine. La storia ha luogo nel 1938, nel pieno della lotta di Gandhi per ottenere l’indipendenza del paese. Alla morte del marito, un giorno dopo le precoci nozze, la vedova-bambina, Chuyia -di soli 8 anni- entra in un ashram: una residenza per vedove. Attraverso i suoi innocenti occhi misuriamo il clima di un paese esotico, dominato da un tremenda divisione di classi, a sua volta fonte di gravissime ingiustizie: tra queste, la situazione di abbandono in cui versano le donne che restano vedove. Notevoli interpretazioni e buon polso narrativo emergono in un racconto variegato, che inquadra la realtà sociale del paese attraverso una trama romantica. La protagonista è una delle vedove dell’ashram, che esercita la prostituzione.

Mehta evita la tentazione di cadere nel folklore pittoresco, caratteristica di molti film girati nei paesi più frequentati dal turismo occidentale. Sono davvero rivelatrici due importanti considerazioni che aiutano a inquadrare il film nel contesto adeguato. Innanzitutto, la situazione delle vedove persiste, tuttora, davvero penosa in varie zone dell’attuale India: ossia, a settant’anni circa dall’epoca in cui è ambientato il film. Un secondo aspetto duro da digerire: le autorità indiane hanno rifiutato il permesso di girare nei luoghi originali evocati dal film, costringendo la regista ad effettuare le riprese in Sri Lanka, con molte misure di sicurezza: sempre con la paura di attentati o azioni di disturbo. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-Adulti. Contenuti: S, D (ACEPRENSA)

The black dahlia

28/10/2006. Regista, Brian De Palma. Sceneggiatura: Josh Friedman. Interpreti: Josh Hartnett, Scarlett Johansson, Aaron Eckhart, Hilary Swank, Mia Kirshner. 120 min.USA. 2006. Adulti. (VXD)

Los Angeles, 1947. Il cadavere di Elizabeth Short, giovane aspirante attrice, compare selvaggiamente mutilato in uno spiazzo vuoto di Hollywood. Il mistero che avvolge l’omicidio alimenta l’interesse della stampa, che battezza il caso come “l’assassinio della Dalia Nera” (per il colore dei vestiti della vittima, ma anche a ricordo di La Dalia Azzurra, film dell’anno precedente, scritto da Raymond Chandler con Veronica Lake protagonista). All’epoca si ipotizzarono numerose teorie ricostruttive: alcune voci giunsero ad attribuire il crimine a celeberrimi personaggi del cinema. Ma il caso rimase irrisolto.

Nel 1987 lo scrittore americano James Ellroy -che, ancora bambino, fu spettatore del violento assassinio della madre- decise di raccogliere il testimone di questo crudele episodio. Nel suo libro, oltre ad inventare un colpevole, ordiva intorno all’omicidio della Dalia una sordida e intricata trama di violenza, crimine, depravazione, pornografia e corruzione, con il massimo eclettismo possibile…

Quasi vent’anni dopo, il veterano regista Brian De Palma, decide di portare sul grande schermo il brutale romanzo di Ellroy. Inizialmente, De Palma aveva quasi tutto a suo favore, per girare un buon noir: un’intensa storia basata su fatti reali, un cast più che accettabile, ove brillano soprattutto le due protagoniste femminili -Scarlet Johansson e Hilary Swank-, nonché un generoso preventivo per largheggiare in spese, relativamente alle ricostruzioni ambientali. E, soprattutto sulla sua esperienza di regista, peraltro frequentemente sopravvalutato.

Con un budget assai più limitato, Curtis Hanson e Brian Helgeland adattarono un altro romanzo di Ellroy –L.A. Confidential- traendone un stupendo film, capace di incassare 126 milioni di dollari. Al contrario, il film di De Palma non raggiunge le aspettative: è un film di classe, ben girato, con una fotografia molto curata, ma che lascia lo spettatore assolutamente freddo. Con le relative conseguenze.

Il film, non solo ci impiega troppo a partire, ma molto prima della farraginosa conclusione è già finito a fondo. Il copione di Josh Friedman (il padre del noiosissimo La guerra dei mondi) è debole e confuso; se già non si segue bene la trama, nemmeno resta, almeno, la soddisfazione di soffermarsi sui personaggi: privi di profondità e non credibili, se non anche ridicoli (soprattutto quando li si vuole presentare nelle loro esaltate passioni e ossessioni). In questo panorama, tutto si rende più difficile per il cast, che perviene soltanto ad interpretazioni meramente corrette, ad eccezione di Johansson, capace di rasentare il patetico.

The Black Dalia (50 milioni di budget, 22 milioni ricavati negli Stati Uniti) conferma due cose. La prima è che il noir privo di copione, di personaggi e di conflitto morale -qui quasi del tutto assente- risulta un prodotto altamente indigesto. E ciò, malgrado la buona ambientazione e certe scene di azione davvero riuscite (De Palma usa la steadycam forse come nessuno, ma come narratore è decisamente scarso). La seconda: bisognerà attendere la “prequel” di Gli Intoccabili, per vedere se De Palma riesce a recuperare consensi. Probabilmente intitolato The Untouchables: Capone Rising, il film racconterà l'arrivo del boss malavitoso a Chicago e la sua ascesa ai vertici del mondo criminale. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, X, D (ACEPRENSA)

Little Miss Sunshine

28/10/2006. Registi: Jonathan Dayton, Valerie Faris. Sceneggiatura: Michael Arndt. Interpreti: Grez Kinnear, Steve Carell, Toni Collette, Alan Arkin, Abigail Breslin. 101 min. USA. 2006. Adulti. (DS).

La storia è semplice. Si potrebbe riassumere in una riga: gli Hoover si recano, in uno sgangherato furgoncino, ad un concorso di bellezza infantile. Se si descrive un po’ gli Hoover, la cosa si complica. Olive, la piccola e grassottella beniamina, è quella che si presenta al concorso. L’accompagnano il fratello Dwayne –stupido adolescente che ha fatto voto di silenzio-, il nonno -un singolare anziano, incallito in pornografia ed eroina-, suo zio –gay, con un tentativo di suicidio alle spalle-, il papà -un professionista del training autogeno, che vende ricette per raggiungere il successo-, e la mamma, che dedita al tentativo di mantenere unita questa strana famiglia.

Dalla sua eccellente accoglienza nel festival di Sundance, questo film costato soltanto 8 milioni di dollari non ha smesso di lievitare; lo riprova l’eccellente risultato economico ottenuto negli USA, accompagnato dal recente successo di pubblico al festival di San Sebastian. Parte del successo è dovuto, senza dubbio, a un copione molto divertente che riesce a diluire -al meno a camuffare- una brutale carica critica contro la società del successo, che è anche la società del l’edonismo, della confusione e della mancanza di riferimenti educativi (da antologia le scene dove ognuno dei genitori propone consigli opposti ai figli).

Il problema, come in tante altre produzioni di matrice indipendente che mettono il dito nella piaga, è che la soluzione finale -tipo “non c’è niente di più bello della famiglia unita”- appare così leggera e superficiale come le toppe ai piedi. Servono soltanto a concludere il film. In fondo, lo riconosce meravigliosamente la co-regista Valerie Faris quando afferma che “non volevamo girare un film suoi valori famigliari, ma sul valore della famiglia”. È sempre qualcosa, ma... Davvero basta questo? Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: D, S (ACEPRENSA)

Pirati dei Caraibi. La maledizione del forziere fantasma

21/10/2006. Regista: Gore Verbinski. Sceneggiatura: Ted Elliott y Terry Rossio. Interpreti: Johnny Depp, Orlando Bloom, Keira Knightley, Stellan Skarsgard, Bill Night. 150 min. USA. 2006. Giovani. (VS)

Nel cinema nessuno possiede la formula magica del successo. Perciò, quando uno fa centro con un film, non gli resta altro che pensare di trarne un successivo episodio. Proprio quello che si è verificato anche per il tandem Bruckheimer-Verbinski, dopo che nel 2003 proposero Pirati dei Caraibi: La maledizione della prima luna, con cui hanno guadagnato larghi consensi di pubblico, di buona parte della critica e di un grande numero di quei cineasti nuovamente propensi a vedere con favore la possibilità di risuscitare generi di film giudicati morti e sepolti da tempo.

Questo film prosegue proprio dove era terminato il precedente: le fallite nozze di Elizabeth e Will. La trama, benché più complicata e con un maggior numero di personaggi secondari, riprende lo stesso schema: due squadre, nella prima Jack Sparrow -con i buoni- e nell’altra i cattivi, in questo caso un po’ sfumati, diretti -questo sì- dal super spietato Capitano Jones. Comunque, la trama è la cosa meno importante perché, siccome ci sarà un terzo episodio, il film finisce con il classico: “il seguito alla prossima puntata”.

Se La maledizione della prima luna ha costituito una gradevole sorpresa -specialmente per il riuscitissimo personaggio di Johnny Depp, la seconda parte manca proprio del fattore sorpresa. Il che rende quanto meno inspiegabile la lunghissima durata del film: gli ultimi quaranta minuti -con il terzo attacco del kraken- risultano pesanti.

A parte lo scoglio dell’eccessiva lunghezza, questa seconda parte è però più che accettabile. Come nel primo episodio, c’è una saggia dosatura di azione e humour -molto spassosa la storia nell’isola di Pelegosto-; ma il tono generale è più dark e molto meno romantico.

Il film ha una messa in scena spettacolare, di quelle che aiutano a riconciliarsi con il cinema commerciale, che non lesina mezzi né per ricostruire le navi -occhio al vascello dell’Olandese volante-, né per girare battaglie –otto giorni per girare la scena del combattimento più impegnativo- e nemmeno per cercare e ricreare località e scenari.

Nel capitolo interpretativo, Johnny Depp, anche se rischia di diventare ripetitivo (nella prima film era stato invitato a inventarsi pure il personaggio, dandogli carta bianca) continua nel suo ruolo alla grande. Anche se non è tanto difficile far bella figura se hai come comprimari, al solito, un mediocre Orlando Bloom e una -più che mai- scarsissima Keira Knightley. Malgrado i 150 minuti e il recital di smorfie di Knightley, a fine agosto il film aveva incassato 924 milioni di dollari: è in testa agli incassi del 2006. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V, S (ACEPRENSA)

Il diavolo veste Prada

21/10/2006. Regista: David Frankel. Sceneggiatura: Aline Brosh McKenna. Interpreti: Meryl Streep, Anne Hathaway, Emily Blunt, Stanley Tucci, Adrian Grenier. 109 min. USA. 2006. Giovani-Adulti (SD).

Crudelia De Mon, voglio dire, Miranda Priestly, è la redattrice capo di Runway, prestigiosa rivista americana di moda. La redazione di Runway assomiglia moltissimo ad una passerella di moda, dove le giornaliste-modelle sfilano al suono della musica della loro dispotica principale. Sono le regole del gioco. Quelle che dovrà imparare Andrea Sachs, l’ultima stagista assunta da Miranda, se vuol conservare il posto di lavoro.

Nel 2003, Lauren Weisberger scrisse Il diavolo veste Prada, un best-seller applaudito dal pubblico e criticato dalla stampa, specialmente quella specializzata in moda. Non si trattava di permalosità: Weisberger aveva lavorato come stagista a Vogue, agli ordini di Anna Wintour, capo dell’edizione nordamericana della famosa testata francese e una delle persone più influenti nel mondo della moda.

A questo punto avrete capito che la tiranna Miranda Pirestly è Anna Wintour e che il film è una crudele radiografia del mondo del giornalismo e della moda, mascherato da commedia leggera.

Il film è prevedibile, ma David Frankel ha un copione intelligente -e a tratti divertente-, che raccoglie alcune idee azzeccate sul prezzo della fama. Se inoltre hai un buono staff tecnico e nel cast un valore sicuro -Meryl Streep- e un ispirato Stanley Tucci, il risultato è un prodotto molto superiore a commedie simili.

Inoltre, in modo che tutto finisca bene, Anna Wintour ha preso il film con humour: è andata all’anteprima e ovviamente vestita Prada. E come poteva non esserlo? Peraltro, ha abbandonato poi la sala a metà film. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-Adulti. Contenuti: S, D (ACEPRENSA)

Scoop

21/10/2006. Regista, sceneggiatura: Woody Allen. Interpreti: Woody Allen, Scarlet Johansson, Hugh Jackman, Ian McShane, Nigel Lindsay, Robyn Kerr. 96 min. USA. 2006. Adulti. (S)

Sembra come se con Match Point il regista di New York avesse voluto iniziare una nuova tappa creativa con nuovi argomenti e ossessioni, e con nuove muse e ambienti. Infatti, nel suo ultimo film, Scoop, ripropone: attrice protagonista (Scarlet Johansson), città (Londra) e argomenti (aristocrazia britannica, amori interclassisti, fantasmi dell’aldilà che ritornano per risolvere questioni pendenti…). Non è Woody Allen a rompere con il suo passato: più semplicemente evolve. Di fatto è impossibile qui non vedere evidenti parallelismi tra questo film e Misterioso omicidio a Manhattan o La maledizione dello Scorpione di Giada. Anche il semplice intreccio di Scoop ricorda in molti momenti la suspense di Hitchcock. Per esempio in Il sospetto o in Notorius, film garbatamente rievocato nella scena della discesa in cantina con un mazzo di chiavi: quello che possiede soltanto il criminale.

Sondra (Scarlet Johansson) è una giovane studentessa di giornalismo che un giorno riceve una rivelazione mentre si presta al ruolo di cavia in uno spettacolo di magia. In questa rivelazione, viene informata del nome dell’autore di un noto omicidio, uno psicopatico che terrorizza la società londinese. Ma il nome è quello di un uomo conosciuto e influente dell’aristocrazia britannica. Sondra, aiutata dal pusillanime mago Splendini (Woody Allen), si lancia nell’indagine di questo caso, che potrà far di lei una prestigiosa giornalista.

Il film si presenta definito dallo stile comico tradizionale di Allen: dialoghi ironici e divertenti, gags commisurate all’emblematica personalità del suo personaggio, nonché un surrealismo già esibito in Harry a pezzi, dove le questioni ultime convivono con il quotidiano in modo sorprendente. Qui vediamo, per esempio, la morte con tanto di falce, che appare nel film come la cosa più normale. Il sesso, la psicoanalisi e il giudaismo, argomenti ricorrenti nel cinema classico di Allen, sono notevolmente ridimensionati, per lasciare spazio a questioni come la colpevolezza, la morte, la critica sociale che, senza difettare nella precedente filmografia, sembrano ora e in Match Point presentare nuovi aspetti.

Il film non pretende di trattare con profondità un determinato tema, ma soltanto evocare questioni che preoccupano l’autore, e soprattutto, divertire molto. Lo dimostra la trama e lo humour che funziona perfettamente. Inoltre, l’improbabile tandem Allen-Johansson offre qui risultati davvero inattesi. Non si tratta di un capolavoro, bensì di un’ulteriore saggio di un cineasta che produce un film all’anno. Lui lo sa, né altro pretende. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: S (ACEPRENSA)

World Trade Center

21/10/2006. Regista: Oliver Stone. Sceneggiatura: Andrea Berloff. Interpreti: Nicolas Cage, Michael Peña, Maria Bello, Maggie Gyllenhaal, Stephen Dorff, Jay Hernandez. 129 min. USA. 2006. Giovani. (V)

Con gli eventi dell’11 settembre 2001 sono state scritte in modo indelebile le prime righe della storia del XXI secolo. Il film in esame, con scandalo dei seguaci dell’Oliver Stone più polemico, non cerca di propinare profonde retrospettive sul significato di quel particolare evento. Semplicemente, e non è poco, prende spunto da questa cornice per raccontare il dramma molto personale di due poliziotti rimasti sepolti sotto le macerie di una delle Torri gemelle. John McLoughlin e Will Jimeno si erano recati laggiù con l’intenzione di aiutare quanti erano rimasti intrappolati nelle Torri dell’attentato. Ma poco hanno potuto fare, se non sopravvivere. Con la perizia di un entomologo, Stone, che si piega totalmente al copione di Andrea Berloff, descrive l’angoscia della coppia di poliziotti e delle loro famiglie, che aspettano notizie all’esterno. E sottolinea come la fede e il ricordo delle persone amate si possano trasformare in forti stimoli, per resistere.

Il film ha un forte aroma classico e mostra i diversi risvolti dell’eroismo, senza dar luogo a cinismo di bassa lega o a discorsi politici, del tutto fuori luogo. L’unica licenza che si permette Stone, in questo senso, è quella del personaggio del tenace marine che rovista tra la macerie, con il forte desiderio di vendicare l’affronto subito dagli Stati Uniti: vicenda che culmina con il suo arruolamento per andare a combattere in Irak. Oltre questa reazione, molto umana d’altra parte, abbiamo una storia della quale conosciamo il finale, ben raccontata, con interessanti caratteri umani. Spicca la coppia di Nicolas Cage (che nel film ricorda James Stewart, così come Kevin Costner somigliava vagamente a Gary Cooper in JFK), e Michael Peña, mentre Maria Bello e Maggie Gyllenhaal sono brave a interpretare il ruolo sofferto delle rispettive mogli. Anche se sembrerebbe che il regista si trovi meno a suo agio, che in altre occasioni, tutta la parte iniziale del film, con l’idea dell’ombra maligna di uno degli aerei e il crollo delle Torri, è più che notevole. José María Aresté. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V (ACEPRENSA)

American dreamz

22/7/2006. Regista: Paul Weitz. Sceneggiatura: Paul Weitz. Interpreti: Hugh Grant, Dennis Quaid, Mandy Moore. 107 min. USA. 2006. Giovani-adulti. (D)

Martin Tweed (impersonato da Hugh Grant: molto a suo agio nel ruolo di canaglia senza scrupoli) è il produttore e presentatore di American Dreamz, il reality show di maggior successo della tv statunitense: un concorso in stile American Idol.

Tweed si gioca l’audience di ogni stagione, puntando sul cast dei concorrenti. Perciò, striglia così i suoi collaboratori: “Voglio esseri umani. Dove umano significa difettoso e difettoso significa fuori di testa. Portatemi gente fuori di testa!”. Quest’anno, la finalissima di American Dreamz avrà un ospite d’eccezione, il presidente degli Stati Uniti che, volendo alzare il suo indice di popolarità, decide di parteciparvi secondo il suggerimento dei propri consiglieri.

Il regista di In Good Company dimostra di aver raggiunto una sua maturità, come specialista del genere “commedia sociale a sfondo satirico”. Anche questo film vanta un grande cast ed una regia che sa molto il fatto suo, dove non si può far a meno di citare il valido e serio lavoro fotografico di Robert Elswit (Good nigth and good luck).

Weitz (New York, 1966) infligge un tremenda mazzata al diffusissimo desiderio di fama “express”, alle patologie del lato oscuro del sogno americano, ai complessi della classe media, nonché alla nefasta influenza sui giovani provocata dal consumo smodato di tv. Lo fa con attrattiva, garbo e disinvoltura, in modo contundente ma elegante, senza quegli eccessi che tanti considerano imprescindibili, ma che manifestano -al contrario- una pura mancanza d’immaginazione. Alberto Fijo, ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-adulti. Contenuti: D (ACEPRENSA)

La casa sul lago del tempo

22/7/2006. Regista: Alejandro Agresti. Sceneggiatura: David Auburn. Interpreti: Keanu Reeves, Sandra Bullock, Dylan Walsh, Shohreh Aghdashloo, Christopher Plummer. 105 min. USA. 2006. Giovani (S).

Alex Wyler è un giovane architetto che si trascina dietro un difficile rapporto con il padre, genio dell’architettura che ha sacrificato la famiglia per raggiungere il successo nel lavoro. Kate Forster è una dottoressa che si è appena istallata in un moderno appartamento di lusso, dove abita da sola. Alex e Kate hanno condiviso, da vicini, un’originale casa costruita in mezzo ad un lago. Per questo si scambiano alcune lettere e presto sorge la simpatia… e lo sconcerto, quando scoprono che la loro storia non è in contemporanea, ma ognuno la vive a due anni di distanza dall’altro.

Il regista argentino Alejandro Agresti è stato incaricato di trasformare un modesto film coreano del 2000 –Siworae (Il Mare) di Lee Hyun-seung- in uno dei prodotti più attesi dell’anno, pubblicizzato come il ritrovamento di Keanu Reeves e Sandra Bullock, dopo il successo di Speed, risalente a dodici anni fa. Oltre l’evidente attrattiva della coppia protagonista, pienamente inserita in una ultraromantica storia di amore impossibile, Agresti vanta -a suo favore- un’interessante narrazione sulla carta, rivestita in una confezione di lusso: la fotografia, che risulta spettacolare sia quando riprende la città di Chicago, che la casa sul lago. A questo livello -un bel film, con buoni attori, tono elegantissimo e finale con doppio colpo di scena e applauso del pubblico, stufo di andare al cinema per avvilirsi-, il film di Agresti funziona.

Il problema è che, se uno guarda un po’ dietro la facciata, il film non è ben costruito. La trama è un po’ labile ed il lavoro di sceneggiatura un po’ carente: si sostiene su un rapporto di due persone che condividono solo alcuni piani -per di più, bisogna ricordarsi che lui vive due anni prima di lei-, in modo che un lieve errore nel copione può produrne la totale demolizione. Se ciò non avviene in questa pellicola, è solo perché gli attori e la regia salvano il film, pur essendoci momenti in cui sembra prossimo il crollo. L’inizio è lentissimo; il trattamento del tempo così fiacco, che non conviene neppure perder tempo a cercare il modo di non perdersi.

D’altra parte si sente che Agresti lavora su materiale altrui: non è sua l’idea, né la sceneggiatura. Si è trovato un film coreano già girato, che non ha osato rivisitare sul lato del realismo incantato. Lo ha lasciato così com’era. Ed è un peccato, perché una storia inverosimile non si può filmare come si trattasse di un telefilm. Anche il copione se l’è ritrovato bello e scritto. E nel libretto di David Auburn (Proof, La prova) si avverte la mancanza di alcune qualità dello sceneggiatore argentino: l’agilità dei dialoghi -sostituiti qui, dalle lettere-, la bravura nel costruire alcune situazioni, la profondità dei personaggi… Sì percepisce la mano di Agresti giusto nel tono: questo tono tristemente speranzoso, qui più speranzoso che triste, che sempre parla di seconde opportunità. Come Persuasione (di Jane Austin), il libro preferito di Kate. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: S (ACEPRENSA)

The sentinel

22/7/2006. Regista: Clark Johnson. Sceneggiatura: George Nolfi; basata nel romanzo di Gerald Petievich. Interpreti: Michael Douglas, Kiefer Sutherland, Eva Longoria, Kim Basinger, Martin Donovan, Ritchie Coster. 108 min. USA. 2005. Giovani-adulti. (VSD)

Uno dei più prestigiosi agenti segreti del presidente degli Stati Uniti intrattiene una relazione con la First Lady. Quando cerca di nascondere l’adulterio, diventa il principale sospetto di un complotto terroristico.

Questo adattamento del romanzo di Gerald Petievich sta a mezza strada tra Il fuggitivo e Nel centro del mirino, ma manca del vigore narrativo del primo e dell’intensità drammatica del secondo. Per di più, le riflessioni sulla lealtà e il dovere sono tanto superficiali, quanto gli schematici personaggi che rappresentano “i cattivi”, gli insipidi ruoli femminili, o la compiacente accettazione dell’avventura del protagonista con la moglie del presidente. Comunque, il copione non calca troppo la mano negli elementi più grevi. La regia di Clark Johnson è inoltre molto più appariscente di quella di S.W.A.T., mentre gli eccellenti attori prendono molto sul serio la parte dei loro convenzionali personaggi, anche nell’aspro finale. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-adulti. Contenuti: V, S, D (ACEPRENSA)

Chaos

22/7/2006. Regista: Tony Giglio. Sceneggiatura: Tony Giglio. Interpreti: Jason Statham, Ryan Phillippe, Wesley Snipes, Henry Czerny, Kimani Ray Smith. 98 min. USA. 2006. Giovani. (VDS)

Film d’azione abbastanza divertente, purché non si indugi troppo sulle molte zone d’ombra che presenta il copione, o sui luoghi comuni propri del genere poliziesco, sottolineati a tal punto da renderli quasi caricaturali. Vi si racconta di come l’ispettore di polizia Conners, ritiratosi dal servizio dopo un caso finito in scandalo giornalistico, è richiamato come interlocutore dal rapinatore di una banca, che tiene sotto mira un numeroso gruppo di ostaggi.

L’inizio della storia ricorda il recente Inside man, anche se a Tony Giglio non vanta la “finezza” di Spike Lee. Per il resto, la trama scorre per altre vie, troppe, fino ad alimentare la dispersione: forse per restar fedele al titolo, che include una soluzione a sorpresa così assurda, da sembrare una presa in giro. Nel capitolo recitativo spicca la coppia di poliziotti incarnata da Jason Statham e Ryan Phillippe. Meno riuscito il ruolo di cattivo di Wesley Snipes, appena accennato. José María Aresté. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V, S, D (ACEPRENSA)

X men 3 - Conflitto finale


3/6/2006. Regista: Brett Ratner. Sceneggiatura: Simon Kinberg, Zak Penn. Interpreti: Hugh Jackman, Halle Berry, Ian McKellen, Patrick Stewart, Famke Janssen.103 min. USA. 2006. Giovani-adulti. (VS)

L’industria di comics Marvel si è ormai immancabilmente legata ad una Hollywood priva d’idee e copioni. Ma il fatto di dar vita ad un nuovo prodotto derivato dal celebrato marchio comic non garantisce automaticamente il successo, nel cinema. Perciò, Marvel ha cercato di fare le cose per bene, specialmente poi perché coinvolto nella produzione, da cui trarre un bel po’ di soldi.

Come sempre, Magneto e i cattivi mutanti sono in guerra con gli umani e i mutanti buoni; tra questi, si impone la squadra che lidera il professore Xavier. In questo filmato, teoricamente l’ultimo della serie, è stato scoperto un vaccino che permette ai mutanti di trasformarsi in umani normali. È arrivato il momento di scegliere se continuare ad essere potenti ma emarginati, o sottomettersi al vaccino ed abbandonare i poteri, per contemporaneamente reintegrarsi in una società che ha paura delle differenze. Il messaggio di fondo, un presunto canto alla tolleranza, ammette più di una lettura e non sempre positiva.

Il film è impeccabile sul terreno dell’impatto visivo; di fatto vi hanno partecipato tutte le grandi società di effetti speciali. C’è un ritmo trepidante e tanta battaglia, il che non lo rende consigliabile a un pubblico di bambini. Potrebbe migliorare il trattamento dei personaggi: Wolverine, autentico protagonista della serie, trasmette emozione e vita a tutti i suoi interventi: ma gli altri sono semplici comparse. Un buon intrattenimento, fedele al comic, con un tocco di politically correct. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-adulti. Contenuti: V, S (ACEPRENSA)