Million dollar baby

19/2/2005. Regia: Clint Eastwood. Sceneggiatura: Paul Haggis. Interpreti: Clint Eastwood, Hilary Swank, Morgan Freeman, Jay Baruchel, Mike Colter, Lucia Rijker, Brian O’Byrne. 137 m. USA. 2004. Adulti.

Eastwood (San Francisco, 1930) –se Martin Scorsese lo permette- potrebbe risultare il grande mattatore agli Oscar di quest’anno. Million Dollar Baby ha ottenuto sette candidature: miglior film, miglior regia, attore principale (Eastwood), attrice principale (Swank), attore secondario (Freeman), montaggio e adattamento scenografico.

La storia trae spunto da Rope Burns, raccolta di racconti di F. X. Toole, sulle prime non particolarmente originale. Maggie (magnifica Hilary Swank) ha superato i trent’anni, ma continua a lottare per trasformare in realtà un sogno: diventare pugile professionista. Con tenacia, mentre lavora da cameriera, riuscirà a destare l’interesse di Frankie (Clint Eastwood), ovvero di un esperto allenatore, che dirige una palestra, noto per la sua onestà ma anche per il suo carattere indeciso.

Eastwood appare eccellente narratore. Lo dimostra sorprendendo lo spettatore con un racconto che valorizza decisamente la storia originaria. Con il suo abituale stile tecnico (Eastwood ha il pregio di ricorrere quasi sempre allo stesso direttore di fotografia e montatore, con i quali è riuscito confezionare uno stile classico molto personale), il regista di Gli spietati mette il suo talento al servizio di un film d’azione spettacolare, che include valori come l’amicizia e la fiducia, utilizzando un triangolo molto forte: quello che integra la pugile, l’allenatore e un vecchio sparring-partner (Morgan Freeman), che è anche è la voce narrante della vicenda. Al tema sportivo se ne aggiunge uno più intimista, quello della relazione paterno-filiale, che si instaura tra l’allenatore e la pugile, capace di riempire i vuoti affettivi presenti nell’esistenza di entrambi.

Sconcerta e pone alcuni problemi l’inserimento di un episodio di eutanasia, perché il film elude la superficialità e appare ricco di sfumature. Eastwood, comunque, non giustifica la condotta dei suoi personaggi, né manipola lo spettatore dal punto di vista emotivo. Non è nuova l’attrazione di Eastwood per storie dure di espiazione, con personaggi torturati dal rimorso della colpa. In tal senso, Million Dollar Baby è film più misurato di Mystic River.

Alla padronanza del team tecnico (le sequenze dei combattimenti sono veramente impressionanti) bisogna aggiungere la maestria dello sperimentato cast di attori. Taluni personaggi meritavano, forse, miglior caratterizzazione. La musica, di Eastwood, si sposa bene al contenuto del film. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Una lunga domenica di passioni

19/2/2005. Regia: Jean-Pierre Jeunet. Sceneggiatura: Guillaume Laurant, Jean-Pierre Jeunet. Interpreti: Audrey Tatou, Gaspard Ulliel, Jean Pierre Becker, Dominique Bettenfeld, André Dussollier. 134 m. Francia. 2004. Giovani-Adulti.

È uscito l’ultimo film del fuoriclasse regista francese Jean-Pierre Jeunet. Impostosi all’attenzione generale con film quali Delicatessen, La città perduta, Alien-La clonazione, grazie a Il favoloso mondo di Amélie ha riscosso fama e successo internazionali. Adesso, con la stessa attrice Audrey Tatou, recupera lo stile di Amélie per adattare un romanzo di Sébastien Japrisot.

Alla fine della I Guerra Mondiale, la giovane Mathilde riceve la notizia che il suo fidanzato Manech è stato riconosciuto colpevole, dal tribunale militare, dell’accusa di automutilazione; e quindi condannato a vagare nella terra di nessuno: quella striscia che separa le trincee francesi e tedesche, destinato a fine quasi certa. Mathilde, che non è disposta ad accettare di perdere la persona amata, ne intraprende la ricerca: senza tregua, contro ogni speranza.

Al delizioso cocktail di attori ricorrenti nel cinema di Jeunet, come Pinon o Dussolier, si aggiunge un’attrice secondaria d’eccezione: Jodie Foster. Come in Amélie, il film preferisce ai grandi principi e ideali un immanentismo magico e un’antropologia minima. È un’opera singolare, che imprime uno sguardo poetico ed umoristico ad eventi terribili e forieri di desolazione. Tutta l’atmosfera è propria di un racconto: i personaggi fiabeschi e l’epico amore della protagonista.

Non c’è niente di solenne o retorico nel film; al contrario, si tratta di un cantico che celebra l’apparente insignificanza della vita, le cose impercettibili ma profondamente concrete. Pura poesia naïf. Merita una citazione la musica di Badalamenti e le allusioni al film Orizzonti di gloria di Kubrik. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Squadra 49

19/2/2005. Regista: Jay Russell. Sceneggiatura: Lewis Colick. Interpreti: Joaquin Phoenix, John Travolta, Jacinda Barrett, Robert Patrick, Morris Chesnut, Billy Burke. 105 m. USA. 2004. Giovani.

Un vigile del fuoco di Baltimora resta intrappolato in un palazzo in fiamme. Mentre aspetta di essere salvato, ricorda la sua carriera nel corpo di pompieri: l’arrivo alla caserma da pivellino, il cameratismo, i primi salvataggi, la perdita di colleghi in azione… e le vicende con cui si è costruito la propria famiglia.
Negli ‘30 e ‘40 erano di moda, a Hollywood, film -chiaramente propagandistici- che proponevano al grande pubblico il servizio sociale della polizia, del F.B.I., dell’esercito… Squadra 49, traendo agevole spunto dall’eroico comportamento dei vigili del fuoco nel fatidico 11 settembre 2001, rientra in questa apologia. Ha il principale difetto di essere molto prevedibile, di glissare su vari possibili conflitti, se si esclude quello relativo all’alternativa tra professione ad alto rischio e famiglia, peraltro ricorrente nei film polizieschi. Tuttavia, la descrizione di persone normali con vite normali (un cattolico s’innamora, si sposa, ha due bambini, vuol molto bene alla famiglia) attrae, e Joaquín Phoenix sa valorizzare bene il personaggio. Gli incendi sono molto spettacolari. Nonostante una messa in scena non particolarmente brillante, emerge qualche idea riuscita. Ad esempio, l’accostamento delle sequenze relative al battesimo di un bambino, con il gocciolio dell’acqua che risveglia il protagonista dal suo stato di incoscienza. La religione si presenta con naturalezza (sembrano esserci numerosi cattolici tra i vigili del fuoco degli Stati Uniti) e anche se qualche battuta appare un po’ al limite, si nota attenzione per non creare disagio tra gli spettatori. Il film rivela una certa superiorità rispetto ai suoi omologhi che descrivono grandi incendi, come Fuoco assassino. José María Aresté. ACEPRENSA

La foresta dei pugnali volanti

19/2/2005. Regista: Zhan Yimou. Sceneggiatura: Li Feng, Zhang Yimou, Wang Bin. Interpreti: Takeshi Kaneshiro, Andy Lau Tak Wah, Zhang Ziyi, Song Dandan. 119 m. Hong Kong. 2004. Adulti.

Cina, anno 859. La dinastia Tang è in declino. Il malessere è generale e il governo corrotto deve lottare contro numerosi eserciti ribelli. Il maggiore e più potente di questi è comandato da un misterioso nuovo capo. Due capitani delle forze governative, Leo e Jin devono catturare questo nuovo capo, e perciò hanno escogitato un complesso piano. Il capitano Jin si farà passare da guerriero solitario, capace di liberare dalla prigione Mei (Zhang Ziyi), una rivoluzionaria, bella e cieca, per conquistarne la fiducia e farsi introdurre nella sede segreta dell’esercito ribelle. Il piano funziona ma, con loro massima sorpresa, Jin e Mei s’innamorano profondamente durante il lungo viaggio. Lo spettatore resta avvinto su quale sarà il destino di questi due sventurati amanti, nonché desideroso di sapere se si tratta di vero amore, visto che sembrano tramare qualcosa nelle loro menti e celare segreti nel loro intimo, particolare inconsueto tra due che si amano.

Yimou, dopo il sucesso ottenuto con Hero, tanto economico –è stato numero uno negli Stati Uniti, con incassi per 53 milioni di dollari (al costo di 30)- quanto di critica, presenta ai suoi cultori un nuovo film di arti marziali, a passo di danza, prodotto ancora dall’astuto Bill Kong, con budget molto inferiore a Hero. Arti marziali un po’ singolari, come ha sottolineato il critico nordamericano Robert Ebert in un divertente commento. Ebert asserisce che il film sembra rientrare nel genere definito dal collega Pauline Kael “kiss kiss, bang bang”, con l’aggiunta di “pretty pretty”.

La nuova superproduzione di Yimou, anche se meno rifinita di Hero, ha peraltro momenti nei quali non si può che alzarsi per applaudire (soprattutto dopo il lungo e spettacolare “balletto dei fagioli”, con una bellissima Zhang Ziyi).
È proprio quello che hanno fatto i critici –ed io tra di loro- durante la proiezione del film al Festival di San Sebastian. Le coreografie, i costumi, i paesaggi tipici (cinesi ed ucraini), il suono, la fotografia (Zhao Xiaoding aspira all’Oscar), il montaggio e gli attori, costituiscono un insieme di straordinaria bellezza, esaltato dall’uso del colore. Ma la storia è confusa, più confusa e ingarbugliata che in Hero, che già non scherzava. Inoltre, il copione risulta ripetitivo, con diversi passaggi erotici abbastanza ridicoli, chiare concessioni ad un certo tipo di pubblico. C’è poi la questione del finale, o piuttosto dei finali: sembra che gli sceneggiatori non sapevano che finale proporre per il film. Ne segue, che molti ammiratori di Yimou, quando escono dalla sala di cinema, tendono a commenti di questo tipo: “Bene, maestro, ti sei divertito a sufficienza con spade e lotte nei boschi di bambù. Inoltre, hai guadagnato un mucchio di soldi. Adesso basta stupidate! Riprendi il tuo cinema povero, dove con pochissime cose riuscivi a commuoverci molto”. Gli ammiratori del regista di Non uno di meno saranno però contenti di sapere che il loro idolo sta girando la storia di un giapponese che viaggia in Cina, con il figlio, per insegnare l’opera. Yimou è un appassionato dell’opera e nel 1999 ha curato la regia di Turandot, rappresentata nella Città proibita. Alberto Fijo. ACEPRENSA.