Eragon

30/12/2006. Regista: Stefen Fangmeier. Sceneggiatura: Peter Buchman. Interpreti: Edward Speleers, Jeremy Irons, Sienna Guillory, Robert Carlyle, John Malkovich, Djimon Hounsou, Garrett Hedlund, Joss Stone. 104 min. USA. 2006. Giovani.

Eragon è un contadino, rimasto orfano a quindici anni, che trova un giorno una strana pietra di color blu. Da quel momento, la sua vita si riempie di draghi, principesse, orchi, elfi, spade e magia. Molta magia.

Questo film, costato 100 milioni di dollari, traspone su schermo il primo volume della trilogia Il legato, scritta da Christopher Paolini (California, 1983). L’autore -uno di quei ragazzi educati dai genitori a casa loro, una fattoria del Montana-, portò a termine il racconto quando aveva effettivamente quindici anni. I suoi genitori lo hanno pubblicato e sono andati per le scuole, diffondendone la promozione tramite letture e rappresentazioni. Nel 2002, la potente editrice Knopf ha acquisito i diritti, trasformadolo in un best seller negli Stati Uniti, dove ha superato -nelle vendite- Harry Potter. Nel 2005 è stata pubblicata Eldest, la seconda parte. La terza, Empire, è annunciata per il 2008.

Tutti i difetti del romanzo (dialoghi di un’ingenuità totale, personaggi privi di mondo interiore, che agiscono in modo incoerente e arbitrario, trame elementari, eccessi descrittivi di taglio cinematografico, continue contaminazioni da situazioni e personaggi di altri libri e film fantasy) sono presenti nel film dell’esordiente Stefen Fangmeier, un tecnico di effetti visivi che ha elaborato il povero copione di Peter Buchman (Jurassic Park 3), vuoto e trito, privo di sorpresa, permeato di densa volgarità. La messa in scena è irregolare, con una sensazione quasi continua di rigidità. Il classico caso, in cui lo zelo per restare fedele al romanzo si trasforma in trappola mortale.

La magniloquente musica del grande Patrick Doyle cerca di infondere emozione ad un film, che sarebbe stato molto meglio girato da un regista e uno sceneggiatore più abili, capaci di basarsi sugli elementi più attraenti di una storia di avventure con tutti gli ingredienti abituali di quegli eroi, protagonisti di viaggi iniziatici. L’attore principale, un clone di Luke Skywalker, mette uno straordinario impegno nel riuscire insulso, ottenendolo a perfezione. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. (ACEPRENSA)

Casino Royale

30/12/2006. Regista: Martin Campbell. Sceneggiatura: Neal Purvis, Robert Wade, Paul Haggis. Interpreti: Daniel Craig, Eva Green, Mads Mikkelsen. 144 min. USA. 2006. Nelle sale dal 5 gennaio 2007. Adulti. (VXD)

Film numero 21 della saga Bond, iniziata nel 1962, basata sui dodici romanzi e nove racconti dell’inglese Ian Fleming (1908-1964). Casino Royale adatta il primo romanzo di Ian Fleming, scritto nel 1953, dove già si profilano le caratteristiche del personaggio di James Bond, agente dei servizi segreti britannici.

Il neozelandese Martin Campbell (Goldeneye, La maschera di Zorro, Vertical Limit) dirige il suo secondo film della serie Bond, che ha come protagonista -per la prima volta- l’attore inglese Daniel Craig (L’amore fatale, Munich). Campbell ha ottenuto il miglior film della saga, quello di maggiore spessore drammatico. Bond (ben interpretato da un austero e roccioso Craig) è tipo freddo, triste, abbastanza rude. Come in altri film, c’è azione, violenza, erotismo, cinismo e presunzione. Ci sono meno marchingegni, auto super-accessoriate e sfilate -da basso maschilismo- di ragazze esplosive. Lo humour è più presente e succedono lunghe sequenze di azione. C’è perfino qualcosa che si avvvicina all’amore, grazie al personaggio della contabile che interpreta Eva Green. Si sente la mano di Paul Haggis (Crash, Million Dollar Baby, Flags of our fathers) sul copione, che contiene humour, ironia e amenità, e qualche situazione molto ben risolta. La lunghezza del film è eccessiva. Come pure i colpi di scena, la svolta finale e l’abuso di violenza. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, X, D (ACEPRENSA)

Giù per il tubo


30/12/2006. Registi: David Bowers, Sam Fell. Sceneggiatura: Dick Clement, Ian La Frenais, Chris Lloyd, Joe Keenan, Will Davies. Animazione. 84 min. UK. 2006. Giovani. (VD)


Il film di cartoons racconta l’avventura di Roddy St. James, elegante topo aristocratico e scapolo di lusso, che vive in uno dei migliori quartieri di Londra. La sua comoda vita viene troncata quando un topo di fogna invade il suo focolare, lo precipita nel cesso, azionando lo sciacquone. Roddy scoprirà che sotto, nelle fogne, c’è un’altra Londra a misura di topolino, piena di vita.

La terza collaborazione tra DreamWorks e Aardman (Galline in fuga, Wallace&Gromit) produce un buon film, anche se non così riuscito come i precedenti. Si è rinunciato alla plastilina, per generare le figure direttamente al computer. Anche se conservano un aspetto simile alle figure classiche della Aardman, in qualche parte del processo si è perso un po’ dell’incantesimo dei pupazzi britannici. In cambio, si è guadagnato in disegno di produzione: il mondo sotterraneo è una creazione impressionante, piena di acqua di fogna, di colori, di oggetti e personaggi che sarebbe impossibile realizzare con stop motion.

La storia ritrae il solito scapolone egoista, che vive in una gabbia d’oro, scoprendo che gli manca l’essenziale: famiglia e amici. Il tono è decisamente e piacevolmente britannico. I personaggi, interessanti. Ma una volta fatte le presentazioni, il film si trasforma in una estenuante vicenda, scandita da continui colpi di scena, costellata da numerose gags -ce ne sono di molto divertenti, come lo straordinario coro delle lumache- con spunti tratti da vari film e telefilm. Anche se divertente -di certo il pubblico resta sveglio-, l’eccesso di trovate fa perdere quota ad una storia che appariva assai più promettente.

Alle volte lo humour è volgare, pesante, più per adulti che per bambini; ma, dato che tutta l’azione si svolge nelle fogne, poteva, a ragione, scadere ancor di più. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V, D (ACEPRENSA)

Tutti gli uomini del re

30/12/2006. Regista, sceneggiatura: Steven Zaillian. Interpreti: Sean Penn, Jude Law, Anthony Hopkins, Kate Winslet, Mark Ruffalo. 140 min. USA. 2006. Giovani-adulti. (XDV)

Adattamento del romanzo omonimo di Robert Penn Warren del 1946, è già stato portato sul set da Robert Rossen nel 1949, con lo stesso titolo ed eccellenti risultati, tra i quali l’Oscar al miglior film. Steven Zaillian affronta questo remake da regista e sceneggiatore, dimostrando particolare padronanza del mestiere in quest’ultimo ruolo, già in film come In cerca di Bobby Fischer e Schindler List.

La trama racconta l’ascesa politica di Willie Stark, dagli inizi -quando è poco meno di un rozzo principiante dotato di buone intenzioni per migliorare le cose-, fino al suo mandato di governatore dello stato della Louisiana. Il punto di vista narrativo, come nel libro, è affidato a Jack Burden, giornalista privo di valori morali, che da cronista politico di quotidiano si trasforma in colui che svolge la maggior parte del lavoro sporco, per conto di Stark.

Il romanzo è voluminoso e complesso, ma bisogna riconoscere a Zaillian di essere riuscito a realizzare un copione quadrato, che include molte sottotrame dell’originale. Appare, ad esempio, molto riuscito riprodurre il viaggio notturno intrapreso per far visita al giudice Irwin, che struttura la storia. Ciononostante, sembrano carenti alcuni passaggi che si direbbero rimasti esclusi dal montaggio. Principalmente l’incidente occorso al figlio di Stark, nel quale Zaillain traccia un interessante parallelismo con la figura di Adam Stanton. Ad ogni caso, rimane chiaro il messaggio sulla corruzione politica e sul trionfo del lemma immorale “il fine giustifica i mezzi”, cui è difficile resistere, quando vengono meno solidi principi di riferimento.

Il film è corretto ma emana una certa freddezza, quasi trattasse un corpo inanimato. Pur con un eccellente disegno di produzione e un cast impressionante, non riserva molte emozioni. C’è la sensazione che il film avrebbe addirittura guadagnato con attori meno noti. Si vede Anthony Hopkins, e non si può far a meno di pensare: “Ecco, Anthony Hopkins nei panni del giudice Irwin”, invece di: “Ecco un giudice apparentemente giusto, che nasconde qualche segreto del suo passato”. José María Aresté. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-adulti. Contenuti: X, D, V (ACEPRENSA)

Nativity

16/12/2006. Regista: Catherine Hardwicke. Sceneggiatura: Mike Rich. Interpreti: Keisha Castle-Hughes, Oscar Isaac, Hiam Abbass. 101 min. USA. 2006. Giovani.

Dopo il successo del film The Passion si è riscoperto che una storia tratta dai Vangeli favorisce un buon cinema e buoni incassi. Il film di Mel Gibson, anche se ha avuto incassi impressionanti, era cinema d’autore tout court: un film ben pensato e preparato a lungo.

Nativity è un altro tipo di film, un film commerciale di buon livello tecnico, ma senza speciali pretese. Racconta la nascita di Gesù in modo abbastanza convenzionale, centrandosi sul personaggio della Madonna, interpretata dall’attrice australiana di 16 anni Keisha Castle-Hughes, candidata all’Oscar quale protagonista di Whale Rider (La ragazza delle balene), film che interpretò a 12 anni.

Per un cristiano, la nascita di Gesù è un mistero che contiene un tesoro inesauribile di riferimenti soprannaturali. Ciò vale anche per la regista californiana che ha girato -con professionalità- il copione scritto da Mike Rich (Scoprendo Forrester, Mi chiamano Radio). Questo sceneggiatore -cristiano evangelico-, per documentarsi e trascrivere il film, è ricorso alla consulenza dell’organizzazione protestante National Religious Broadcasters ed alla popolare predicatrice evangelica Anne Graham Lotz; ma anche ad un sacerdote cattolico, professore di Teologia all’università di Portland. I due produttori, professionisti di grande esperienza nel cinema (questo dicembre presentano Eragon per la Fox), hanno alle spalle un lungo tirocinio alle dipendenze delle grandi case produttrici, prima di decidere di mettersi in proprio. Uno è evangelico e l’altro, cattolico.

La regista Catherine Hardwicke aveva finora tradotto sullo schermo storie di giovani alle prese con conflitti piuttosto pesanti (Thirteen, Lords of Dogtown). Lei stessa ha detto che Nativity è pur sempre un film che ha per oggetto una adolescente, alle prese con seri problemi. Il talento della regista non è in discussione, ma c’era da chiedersi se poteva risultare all’altezza di un simile progetto. Hardwicke proviene da avi presbiteriani, ma confessa di non essere credente. Ciononostante, ha immediatamente acccettato il progetto. Il film è stato girato tra Matera e il NordAfrica.

La Madonna, personaggio centrale della storia, appare ritratta come ragazza timida e introversa, dal volto timoroso e teso, nella prima ora del film. È strano che una ragazza, apparentemente molto ben voluta e apprezzata a Nazareth, non risponda piu ai saluti e risulti, ora, quasi scontrosa. Certo, è mia opinione che si tratti di un modo alquanto discutibile, probabilmente erroneo, di presentare così -nel copione- il ruolo rappresentato dalla bella e fotogenica Keisha Castle-Hughes.

Probabilmente si è cercato di conferire singolarità al personaggio di Maria, nell’intento di renderlo più interessante, più drammatico. Fatto frequente nel cinema, ma che si scontra con una verità teologica: Dio agisce basandosi nella natura, e la natura di Maria è certo molto singolare, ma perché immacolata: senza peccato. Il ritratto di Giuseppe è più interessante, più normale. In entrambi, Maria e Giuseppe, non appare nulla -anche se c’è qualche traccia- del personale rapporto con Dio, della loro fiducia in Lui. Maria è molto di più dell’eletta, come dice l’angelo in una speciale versione dell’Annunciazione. È la piena di grazia, una creatura che Dio ama a tal punto da decidere che il proprio Figlio sia anche Figlio di lei. Perciò la trasforma nella creatura umana più eminente della storia della salvezza.

Il film, solo con grande difficoltà, rende ragione di tale ruolo: non è facile esprimerlo. Ma cerca di farlo, con molto rispetto e con una delicatezza tale, da evitare una qualsiasi impostazione deformante della verità di fede sulla Vergine Maria.

Per un cattolico che conosca bene le Scritture, alla luce della tradizione e del magistero, ci sono scene che lasciano piuttosto perplessi, anche se non c’è nessuna che metta in dubbio un solo aspetto essenziale della fede. I Re Magi ed Erode sono molto ben delineati, probabilmente i personaggi che le trame esaltano con più maestria.

Se paragoniamo questo film alla storia parallela narrata nel Gesù di Nazareth di Franco Zefirelli, l’opera del regista italiano (copione di Anthony Burgess) è molto superiore da ogni punto di vista anche se, concepita come serial tv per poi essere trasposta al cinema, finisce per offrire un ritmo narrativo troppo discontinuo. Paragonato ai film televisivi della Lux Vide, Nativity ha una messa in scena migliore, ma risulta inferiore ai copioni della Lux.

Nativity è un film di buon livello. Lo si vede con piacere, pur non arrivando -in nessun momento- ad entusiasmare. Invece, per spettatori con scarsa conoscenza del cristianesimo, il film risulta un utile invito a indagarne le fonti. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. (ACEPRENSA)

Happy feet

16/12/2006. Regista: George Miller. Sceneggiatura: George Miller, John Collee, Judy Morris, Warren Coleman. Musica: John Powell. Animazione. 108 min. USA. 2006. Tutti.

Malgrado sia un magistrale ballerino di tip tap, un pinguino imperatore dell’Antartide, Mambo, è respinto dalla sua comunità perché canta molto male. Inoltre, tra quelli della sua specie, questo difetto rende molto difficile trovare il vero amore. Il ribelle Mambo inizia un lungo viaggio, in compagnia di alcuni divertenti e piccolissimi pinguini latini. Durante le loro peripezie, vivranno pericolose avventure e scopriranno il potere distruttivo dell’essere umano.

L’australiano George Miller (Mad Max, L’olio di Lorenzo, Babe va in città) sta mietendo successi in tutto il mondo, grazie a questa esilarante commedia musicale. Come spesso succede nei musical, il copione è schematico e non approfondisce abbastanza i conflitti morali e sociali implicati.

Ad ogni modo, la sua semplice difesa della libertà, dell’amicizia, della creazione artistica e dell’ecologia -davanti ai convenzionalismi sociali- offre una trama abbastanza solida da incantare lo spettatore, grazie allo stupefacente impatto visivo e musicale dello spettacolo.

Sotto il profilo musicale, Happy Feet propone una selezione davvero riuscita di temi classici di ogni tipo -da Frank Sinatra all’hip-hop-, in versioni molto ben interpretate, con arrangiamenti di buon livello e magnifica strumentazione. Le canzoni, unite alla vibrante partitura originale di John Powell, accompagnano alla perfezione la straordinaria integrazione di animazione tridimensionale ed azione reale, fino ad estenuare le tecniche più moderne pensate per la cattura digitale dei movimenti. Ne nasce uno spettacolo di gran valore, sottile nelle interpretazioni gestuali e vocali, e ugualmente coinvolgente: sia nelle sequenze mozzafiato di azione, che nelle strepitose coreografie musicali. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Tutti (ACEPRENSA)

Flags of our fathers

16/12/2006. Regista: Clint Eastwood. Sceneggiatura: Paul Haggis, William Broyles Jr. Interpreti: Ryan Phillippe, Jesse Bradford, Paul Walker, Adam Beach, Jamie Bell. 132 min. USA. 2006. Adulti. (VD)

A 76 anni suonati, Clint Eastwood confeziona un ennesimo film, traendo spunto da una fotografia entrata nel mito: quella dei sei marines che sollevano la bandiera degli Stati Uniti, in cima al monte Suribachi. L’autore dello scatto fu Joe Rosenthal, il 23 febbraio 1945, per l’Associated Press. Era iniziata a Iwo Jima, un’isoletta del Pacifico, quella che sarebbe stata una delle più dure battaglie della seconda guerra mondiale.

L’istantanea, con cui Rosenthal vinse il Pullitzer, ha avuto un effetto decisivo sull’opinione pubblica americana, che vi ha riconosciuto un’icona della vittoria, portando all’apoteosi i sei marines. In quell’occasione, i responsabili del governo americano approfittano della circostanza per portar a termine un’ambiziosa campagna di raccolta fondi. I tre sopravvissuti della foto si ritrovano così, da un giorno all’altro, trasformati in star, idoli di masse presenti in ogni stadio, per chiedere a tutti di comprare i buoni del tesoro, con cui finanziare la guerra. James Bradley, figlio di uno dei soldati, ha pubblicato i ricordi della battaglia e gli effetti della famosa fotografia, nel romanzo Flags of our fathers. Eastwood si è interessato al romanzo, ma tardivamente: Steven Spielberg aveva i diritti dal 2000. Alla fine sono arrivati ad un compromesso: Spielberg resta come coproduttore, mentre ad Eastwood è toccata la regia.

Flags of our fathers rappresenta un certo cambiamento di rotta da parte di Eastwood. Lo sperimentato regista, stavolta penetra un fatto storico, gira un film bellico dotato di rilevante budget (80 milioni di dollari) e, anche se conservando qualcosa, muta il suo tipico fatalismo e la sua consolidata visione dell’uomo, per parlare di eroi. Infatti, anche se una voce fuori campo ci ripete nel finale, forse per evitare che alcuni possano accusare il film di sciovinismo (e almeno in parte l’accusa è fondata), che i protagonisti sono persone ordinarie, dalle immagini appare invece che i soldati sono eroi. Con errori certo, ma eroi. Ciò non impedisce al film di proporre una critica, al contempo feroce, del meccanismo ideologico, politico e propagandistico della guerra. Eastwood tratta duramente chi provoca la guerra, ma salva quanti la combattono.

I primi minuti sono magistrali: la miscela di realismo sia nella battaglia, che nell’ambiente che circonda i soldati, sprigiona un grandissimo pathos. Il problema è che, quando la formula diventa ripetitiva, il film s’impantana. E, tra tante scene interminabili di battaglia, affiorano vari momenti di stanca.

Il cast -composto da attori molto giovani- funziona bene, ma il disegno dei personaggi è meno profondo che in altri film di Eastwood e, alla fine, neanche l’evidente talento di Haggis -che oltre a Crash, ha scritto Million dollar baby- risulta capace di elevare un film bellico, pur con una buona fotografia.

Le sequenze belliche sono spettacolari. Eastwood calca però la mano con la violenza e non evita allo spettatore quasi nessun primo piano raccapricciante. Lo stesso regista ha girato, in contemporanea, un secondo film (Letters from Iwo Jima) che ricrea il conflitto dal lato giapponese. Il copione è di Iris Yamashita e Ken Watanabe ne è il protagonista. Paul Haggis è il produttore esecutivo. La prima sarà il 9 di febbraio del 2007 negli Stati Uniti: da non perdere. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, D (ACEPRENSA)

Déjà vu

16/12/2006. Regista: Tony Scott. Sceneggiatura: Bill Marsilii, Terry Rossio. Interpreti: Denzel Washington, Val Kilmer, Paula Patton, Jim Caviezel, Bruce Greenwood, Adam Goldber. 128 min. USA. 2006. Giovani-adulti. (VS)

Tony Scott prosegue la sua carriera da regista di film commerciali di serie B (è forse già lo si mette troppo in alto) in questo film di problematico rodaggio. Quando l’uragano Katrina distrusse la città di New Orleans, sembra che i suoi ultimi effetti siano riusciti a distruggere anche la scenografia di questa produzione di Jerry Bruckheimer. Solo quando la città ha iniziato a riprendersi, anche il film ha potuto riprendere quota. Il realizzatore è un inglese di 62 anni che abitualmente produce i suoi film, anche se non in questo caso. Perciò bisogna pensare che il potente Bruckheimer sia andato a cercarselo. Il copione lo scrivono il debuttante Bill Marsilii, e l’esperto e popolare Terry Rossio, autore dei serial “Pirati dei Carabi” e “Zorro”.

Denzel Washington ricopre un ruolo molto simile a Man on fire. E riesce penoso -ancora una volta- vedere un attore di talento, invischiato in questa sottospecie di film. Doug Carlin è un poliziotto disilluso e solitario, che viaggia attraverso il tempo per evitare un attentato… ma avviene che s’innamora.

Questa lapidaria sintesi è l’omaggio più gentile che si può sprecare a favore di un film come questo. Tutto il resto, è insipido e pacchiano: una miscela malriuscita e affettata di tecnologia, fantascienza, due inseguimenti, un fuoristrada-camion, capace di provocare l’infarto a qualche ecologista, tre sparatorie, uno psicopatico e una ragazza piuttosto vistosa, inquadrata con la precisione di cui è capace la ripresa da satellite. Tutto girato come uno spot pubblicitario, con montaggio e alcuni effetti post-produzione scontati e ormai davvero superati. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V, D (ACEPRENSA)

Un'Ottima annata

16/12/2006. Regista: Ridley Scott. Sceneggiatura: Marc Klein. Interpreti: Russell Crowe, Albert Finney, Marion Cotillar, Tom Hollander, Freddie Highmore. 118 min. USA. 2006. Adulti. (XSD)

L’unico modo per evitar di raccontare il finale dell’ultimo film di sir Ridley Scott è non dire quasi niente neanche dell’inizio perché, dal primo minuto, già sappiamo come finirà lo spietato broker protagonista del film, impersonato da Russell Crowe: lascerà la Borsa per dedicarsi ad alcuni vigneti, nella Francia della Provence. Poi, secondo i canoni, c’è una storia di famiglia e una pseudo-storia sentimentale. Senza ritegno alcuno e senza scampo, il film finisce, dal primo minuto, sui binari del prevedibile.

Della banalità della trama -di scarso spessore- si può accusare Peter Mayle, un pubblicista amico di Scott che un bel giorno ha chiuso bottega, per andarsi a godere la vita e raccontarla nei suoi romanzi, a metà tra il racconto e la guida turistica.

Allo sceneggiatore di Serendepity è toccato di trasporre su schermo il romanzo di Mayle, senza peraltro riuscire a sottrarre dallo stereotipo i personaggi, che sembrano fuoriusciti non solo da un cartone animato, ma pure di quelli scadenti. I personaggi femminili recitano solo il ruolo di comparse: o nella parte dell’americana sexy e scema, o pure della ribelle e indipendente francesina, che non arriva a finire la cena e già si è arresa allo charme di un Crowe, sempre più macho.

Sì, la Provence è bella, è ben fotografata e non si dovrebbe viverci male, tra tanti luminosi vigneti, ma a forza di ricorrere a mezzi di dubbio gusto (ci sono riprese, effetti di montaggio e accompagnamento musicale più adeguati ad un video clip) e tanto dialogo banale -con pretese di easy-wear-, diventa impresa ardua riconoscere quel grande regista che è stato Ridley Scott. Anche se la cosa non ci stupisce più di tanto: basti ricordare alcuni dei suoi ultimi film. Nella migliore delle ipotesi, forse è incappato, ultimamente, in una serie di cattive annate. Proprio come può succedere al vino in genere. Anche quello della Provence. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: X, S, D (ACEPRENSA)