La teoria del tutto

24/1/2015. Regista: James Marsh. Sceneggiatura: Anthony McCarten, basato sul libro di viaggio di Verso l’infinito. La vera storia di Jane e Stephen Hawking, di Jane Hawking. Interpreti: Eddie Redmayne, Felicity Jones, Emily Watson, David Thewlis, Charlotte Speranza, Charlie Cox. 123 min. GB. 2014. Giovani.
Questo intenso melodramma del premiato documentarista inglese James Marsh (Man on Wire, Project Nim) rafforza le opzioni per un Oscar dopo aver vinto il Golden Globe 2014 per il miglior attore drammatico (Eddie Redmayne) e per la musica (Jóhann Jóhannsson), e aver optato anche al miglior film e la miglior attrice drammatica (Felicity Jones). Premi che si aggiungono ad altri di varie associazioni di critici.

Il film ricrea il rapporto commovente tra il celebre astrofisico britannico Stephen Hawking e la sua prima moglie, Jane Wilde, partendo dalla sua autobiografia. In particolare, descrive il loro incontro a Cambridge, il loro matrimonio, la nascita dei suoi tre figli, il trionfo professionale di Hawking, le crisi coniugali ... mentre entrambi combattono eroicamente contro la grave malattia degenerative che è stata diagnosticata quando aveva 21 anni, poco prima di sposarsi, e che molto presto prostrò Hawking in una sedia a rotelle.

Ben diretto, impostato e interpretato, la sceneggiatura evita la agiografia, chiarisce i personaggi, mostra con tenerezza la complessa vita coniugale e familiare dei Hawking, e tratta con ponderazione il dibattito tra ateismo e religione che mantengono lo scienziato con se stesso e con la moglie Jane, anglicana praticante.

Viene fuori così una bella storia di superamento e amore, più profonda di quanto ci aspettassimo e con interpretazioni antologiche, in particolare di Eddie Redmayne, ma anche di Felicity Jones che offre la caratterizzazione più emozionante della sua carriera. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.


Pubblico: Giovani. (ACEPRENSA)

The imitation game

24/1/2015. Regista: Morten Tyldum. Sceneggiatura: Graham Moore (libro: Andrew Hodges). Cast: Benedict Cumberbatch, Keira Knightley, Mark Strong, Charles Dance, Matthew Goode, Allen Leech, Tuppence Middleton. 114 min. GB, USA. 2014. Adulti. (D)
Interessante biopic su Alan Turing, il matematico britannico che riuscì a decifrare i messaggi nazisti nella seconda guerra mondiale. La sua macchina, il precursore dei computer di oggi, permesse di accorciare la guerra, potenziò la vittoria alleata e salvò migliaia di vite. Nel 1952, il governo britannico accuso Turing di atti osceni per aver fatto sesso con un giovane di 19 anni. Dopo aver subito la castrazione chimica per evitare il carcere, Turing si suicidò. Un anno fa, la regina d'Inghilterra lo ha graziato a titolo postumo.

The Imitation Game ha fondamentalmente una buona storia dietro: la lotta di alcuni uomini che, con la loro intelligenza, cercano di contrastare una guerra mostruosa. La storia è nota, ma non è facile raccontarla bene: in primo luogo, perché non lo è realizzare un thriller supportato da termini matematici, e in secondo luogo, perché, prima di questa difficoltà, la tentazione di dirigere l’azione verso una “strada secondaria” -storia d'amore, conflitto personale, di gruppo, ecc- è molto forte.

Tyldum evita i due pericoli, da una parte dando peso a ciò che conta e sviluppando bene l'invenzione della macchina; dall'altra, affrontando le sottotrame drammatiche come quello che sono: necessarie ma secondarie. Così, questioni come l'omosessualità di Turing, la complessità del suo carattere (superba l’interpretazione di Cumberbatch) o i rapporti tra il matematico e il suo gruppo di lavoro, funzionano bene, dando drammaticità alla storia e controbilanciando una narrazione che poteva essere difficile da seguire.

Questo equilibrio traballa in un epilogo piuttosto forzato, in cui si racconta la condanna e la morte di Turing in una forma accelerata e molto meno elaborata rispetto al resto del film. In ogni caso, parliamo di leggi che violavano  diritti importanti e che, a quel tempo, godevano di ampio consenso. Ora succede con altre leggi. La storia ci giudicherà. E il cinema ne farà dei film. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.


Pubblico: Adulti. Contenuti: D (ACEPRENSA)

Still Alice

24/1/2015. Regista: Richard Glatzer, Wash Westmoreland. Sceneggiatura: Richard Glatzer e Wash Westmoreland, basata sul romanzo di Lisa Genova. Interpreti: Julianne Moore, Kristen Stewart, Kate Bosworth, Alec Baldwin. 100 min. USA. 2014. Giovani. Golden Globe alla attrice drammatica (Julianne Moore).
A 50 anni, Alice Howland ha fatto grandi cose. Occupa la cattedra di Linguistica presso l'Università di Columbia, è sposata e ha tre figli. Ma un piccolo vuoto di memoria la preoccupa: si rivela la fase iniziale di un tipo di Alzheimer che inizia quindici anni prima del normale, si trasmette geneticamente, e progredisce con rapidità. Per tutto il film si vede come Alice lotta con la malattia, cercando di continuare ad essere se stessa per quanto possibile.

Still Alice è basato sul romanzo della neurochirurgo Lisa Genova che tratta la malattia dal punto di vista del paziente, in prima persona, e non, come è stato fatto in altri film, dal punto di vista dei parenti. Grazie alla grande prestazione di Julianne Moore, premiata con il Golden Globe, soffriamo con Alice, che si rende conto del suo progressivo deterioramento, soprattutto perché è una persona molto intelligente e utilizza tutte le sue risorse per affrontare i sintomi più evidenti della malattia. Un grande cast contribuisce a dare credibilità alla storia.

Ben fatto, triste, duro, e con una deplorevole mancanza di trascendenza quando tratta dei momenti più delicati della vita. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.


Pubblico: Giovani. (ACEPRENSA)

Boyhood

24/1/2015. Regista: Richard Linklater. Sceneggiatura: Richard Linklater. Interpreti: Patricia Arquette, Ethan Hawke, Ellar Coltrane, Lorelei Linklater. 164 min. USA. 2014. Giovani-adulti. (SD) 3 Golden Globes: miglior film drammatico, miglior regista e miglior attrice non protagonista (Patricia Arquette).
Riconosco che la mia recensione di Boyhood è stata pensata e scritta in due fasi. Una uscendo dal film e l’altra dopo averlo studiato. Il riassunto? Come narrativa, Boyhood sembra un opera notevole –ma non un capolavoro- a cui manca epica per essere più grande. Come esperimento del linguaggio cinematografico di un regista, Boyhood è prodigiosa. Se c’è un argomento che attira Richard Linklater, è il passare del tempo e le sue conseguenze. La sua famosa trilogia romantica, aperta con Prima dell'alba, non è altro che questo: la dissezione del binomio amore e tempo. In Boyhood, Linklater ha alzato la sua capacità narrativa alla categoria di test di laboratorio filmico. Per dodici anni, ha girato lo stesso gruppo di attori -che s’incontravano ogni anno per pochi giorni- per raccontare il passaggio dall'infanzia alla maturità di un ragazzo dagli espressivi occhi azzurri posto al centro di una tormentata famiglia disfunzionale.

Lo spettatore contempla come davanti ai suoi occhi cambia lo sguardo del bambino fino indurirsi e perdere l'innocenza, come la bambina kitsch e repellente dei primi minuti (la stessa figlia di Linklater) diventa una interessante giovane, come la madre ingrassa e marca con amare rughe ciascuno dei suoi fallimenti sentimentali, o come il padre lascia il suo idealismo ingenuo per formare una seconda famiglia, all'ombra di un albero quasi pericoloso di puro conservatorismo. Tutto scorre in modo naturale, come il passaggio di fotografie in un album di famiglia, senza che le ellissi appesantiscano, senza ulteriori spiegazioni. Il tempo passa e le cose cambiano. E le persone di più. Anche senza grandi drammi e svolte drammatiche. Alle volte, un incrocio di sguardi complici tra un uomo e una donna catturato da un bambino sconcertato può cambiare la storia di una vita (per questa scena soltanto Linklater meritava un Leone d'Oro) molto di più di un intricato colpo di scena. Il film, come specchio della vita, supera di gran lunga questo esperimento. E per Linklater, come fotografo e ricercatore del tempo, questo film sarà un retaggio.

Come eredità, sì. Come capolavoro, no. Per questo gli manca un elemento che segna la vita di esseri umani e dei protagonisti di un film. I giorni passano, la vita scorre ma l'uomo è più che tempo. In Boyhood, come nel resto dei film del regista britannico, c’è una sorta di determinismo, di tristezza esistenziale che vena di malinconia i suoi film e, curiosamente, li rende meno reali. Per Linklater, il tempo finisce sempre con la vita, gli amori, le speranze e gli ideali. Senza alternative o opzioni. Senza scontrarsi con l'uomo, l'uomo vero, che con epica, con lotta, è in grado di mantenere amori, speranze e ideali attraverso il tempo. Un uomo che, come risulta in un superbo Malick The Tree of Life, il tempo può corrompere ma anche maturare, far crescere e migliorare. Un uomo che può passare attraverso il tempo. E non viceversa.

Qualche cosa di questo contrappunto -di questa, in fondo, speranza vitale- manca a  Boyhood per essere un capolavoro. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.


Pubblico: Giovani- adulti. Contenuti: S, D (ACEPRENSA)

Fury

24/1/2015. Regista: David Ayer. Sceneggiatura: David Ayer. Interpreti: Brad Pitt, Shia LaBeouf, Logan Lerman, Scott Eastwood, Jon Bernthal. 134 min. USA. 2014. Giovani. (V)
David Ayer ha scritto e diretto un film di 68 milioni dollari di bilancio, il primo kolossal della sua carriera, con Brad Pitt come equity partner di riferimento e attore protagonista. Il suo nuovo film segue un carro armato americano che avanza verso Berlino nell'aprile del 1945. L'equipaggio si conosce bene, condividono l'abitacolo del Sherman dall'Africa. I loro scontri con i tedeschi durano da quattro anni.

Chiunque legga quanto sopra, capirà che una storia così è piena di possibilità, di incentivi. Gli attori, la fotografia, il disegno, le locations, funzionano. Ma Ayer ha evidenti problemi di scrittura e la sfortunata musica di Steven Price (premio Oscar l'anno scorso per Gravity) esalta le debolezze strutturali del filmato. A peggiorare le cose, il film dura 134 minuti, che aiutano a rendersi conto dei difetti e dimenticare le virtù (ad esempio, la sequenza dello scontro di Sherman con un Tiger tedesco ha cose molto interessanti, ma anche le caratteristiche di un direttore della fotografia che ha fatti troppi annunci e pocchi film).

“Brothers under the gun” si legge nello slogan promozionale di Fury. Ayer non sa separarsi dalle trame e i personaggi di Spielberg in Salvate il soldato Ryan e Band of Brothers. Se avesse indovinato con la sceneggiatura, il film avrebbe potuto essere molto buono. Ma non passa dalla sufficenza.


Pubblico: Giovani. Contenuti: V (ACEPRENSA)