Alice in wonderland

24/4/2010. Regista: Tim Burton. Sceneggiatura: Linda Woolverton; basata nei libri “Alice nel paese delle meraviglie-Alice nello specchio” di Lewis Carroll. Interpreti: Mia Wasikowska, Johnny Depp, Helena Bonham Carter, Anne Hathaway. 108 min. USA. 2010. Giovani. (V)

I mondi fantastici di Lewis Carroll e Tim Burton dovevano finire, prima o poi, per incontrarsi. Nel 1865, L. Carroll pubblicò Alice nel paese delle meraviglie, le avventure di una fantasiosa bambina che viaggia in uno strano mondo, popolato di esseri ancora più bizzarri. Il libro ottenne successo e poco dopo vide la luce il seguito: Attraverso lo Specchio e quel che Alice vi trovò. Il carismatico regista Tim Burton ha unito i due romanzi per raccontare, con gli stessi personaggi, ma trattando un argomento diverso, una storia che resta però molto fedele all'opera di Carroll.





Il risultato è brillante. Dal punto di vista visivo, il film è un vero evento. Burton ha utilizzato il 3-D forse con meno competenza tecnica di Cameron, nel suo Avatar, ma con una giustificazione più narrativa: l’albero di Pandora potrebbe o no essere tridimensionale, ma la caduta di Alice attraverso il buco scavato dal coniglio, una volta dopo averla vista in 3-D, è impossibile immaginarla in altro modo. La ricreazione del Castello Rosso, la prima esplorazione di Alice nel paese delle meraviglie, il tè con il Cappellaio Matto... sono momenti affascinanti, dove la tecnologia è al servizio del tema narrato. Ben integrati con la trama risultano anche la colonna sonora, davvero meravigliosa, di Danny Elfman, gli splendidi costumi di Colleen Atwood e un gruppo di attori che, nonostante il ritocco digitale, restano impegnati a recitare la loro parte (risaltano la quasi esordiente Mia Wasikova e la veterana Helena Bonham Carter, che svolge con arte il suo antipatico ruolo).

Gli estimatori di Lewis Carroll si sentiranno in gran parte privati del pensiero profondo, oscuro e satirico dell’opera. Burton ha saputo però sostituirli con il ricorso ad una magistrale estetica, variopinta e tenebrosa, a cui ha saputo dosare -comunque- lunghe sequenze di azione, adatte a movimentare la storia.

I fans di Tim Burton riconosceranno -forse meno evidenti del solito- alcuni tra i temi più cari del regista: il ruolo della fantasia, di fronte al rigorismo ed alle convenzioni, l'importanza della figura paterna, il valore della lealtà. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V (ACEPRENSA)

Misure straordinarie

24/4/2010. Regista: Tom Vaughan. Sceneggiatura: Robert Nelson Jacobs. Interpreti: Brendan Fraser, Harrison Ford, Keri Russell, Meredith Droeger, Sam M. Hall, Jared Harris. 105 min. USA. 2010. Giovani.

John Crowley è un giovane dirigente di successo, sposato e con tre figli piccoli, due dei quali affetti dal morbo di Pompe, rara malattia muscolare degenerativa, senza alcuna cura conosciuta, che limita l'aspettativa di vita a nove o dieci anni. Dopo l'ottavo compleanno della figlia maggiore, John e la moglie decidono che lui lascerà il lavoro, per fondare una società di biotecnologie, che promuova le ricerche del dottor Robert Stonehill, cupo e solitario professore universitario, che propone una terapia particolare per la malattia di Pompe.



Basato su fatti realmente accaduti, Misure straordinarie somiglia parecchio a L’olio di Lorenzo di George Miller, ma non ne imita né la qualità, né l'intensità drammatica. Tuttavia, il film esalta l'affetto famigliare, di fronte alla fredda macchina della sanità pubblica e dell'industria farmaceutica, guidata talvolta da dubbi interessi politici o commerciali. Tuttavia, l'approccio coinvolgente si articola in una sceneggiatura troppo lineare e schematica, che spesso denuncia un target eminentemente televisivo.

Ne segue una certa irregolarità, nella recitazione degli attori. Se Harrison Ford si mostra molto convincente nella sua arrabbiata caratterizzazione, Brendan Fraser non riesce a moderare la sua tendenza all’istrionismo, tanto apprezzata nelle commedie. In ogni caso è un film agile e commovente che, contro l'interventismo dello Stato e il disprezzo per la vita, esalta il primato dell'iniziativa della famiglia e della dignità intrinseca di ogni paziente. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani (ACEPRENSA)

Cella 211

24/4/2010. Regista: Daniel Monzón. Sceneggiatura: Jorge Guerricaecheverría y Daniel Monzón. Interpreti: Luis Tosar, Alberto Ammann, Antonio Resines, Marta Etura, Carlos Bardem. 110 min. Spagna. 2009. Adulti(VSD)

Il regista spagnolo Daniel Monzón, da dieci anni passato dal ruolo di critico cinematografico a quello di regista, riesce a realizzare il miglior film, con questo thriller sulla vita in carcere, prodotto da Telecinco, e tratto dall'omonimo romanzo di Francisco Pérez Gandul. Monzón, che dopo la fase di sceneggiatore si è avvicinato alla commedia, ha acquisito uno stile visivo personale nel cinema tematico, con The Kovac box – Controllo mentale. Ora ha compiuto un ulteriore progresso e, grazie a Cella 211, si consacra come uno dei registi di spicco del cinema spagnolo.



La trama non è proprio originale, ruotando sul genere dell’infiltrato che passa dall'altra parte della barricata, già collaudata in vari film. In tal caso, si tratta di una guardia carceraria, Juan Oliver, che va a visitare la nuova prigione, il giorno prima di prendervi servizio. Ma ecco che all'interno del carcere scoppia una sommossa, e lui deve farsi passare da galeotto appena internato, per salvare la pelle. In tale situazione dovrà conquistarsi Malamadre, leader indiscusso della prigione.

Anche se è Alberto Ammann ad interpretare l'agente, è Luis Tosar il protagonista assoluto del film. Il suo personaggio, Malamadre, è il più elaborato del copione. Resines, Manuel Morón e Marta Etura partecipano al cast di questo thriller, violento e potente. Il film ha un impatto visivo e narrativo molto forte, sia per la durezza che per la violenza delle scene. Ma il messaggio è chiaro: il male genera male. Il cinema spagnolo acquista punti, con questo film. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, S, D (ACEPRENSA)

Il profeta

24/4/2010. Regista: Jacques Audiard. Sceneggiatura: Thomas Bidegain, Jacques Audiard, Abdel Raouf Dafri, Nicolas Peaufailit. Interpreti: Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Hichem Yacoubi, Reda Kateb. 155 min. Francia, Italia. 2009. Adulti. (VXD)

In Spagna, un film su una rivolta carceraria, Cella 211, ha avuto buone critiche, è stato plurivincitore di premi Goya, e ha riscosso grande successo tra il pubblico. A sua volta, in Francia, Il profeta, girato sulla vita di un carcerato, un ragazzo analfabeta di 19 anni, francese di origine nordafricana, parte favorito per vincere i premi Cesar. Sesto film di Jacques Audiard (Sulle mie labbra, Tutti i battiti del mio cuore), ha comunque già vinto il premio speciale della giuria a Cannes e due premi dalla European Film Academy (per attore protagonista, Tahar Rahim, e colonna sonora).




La domanda ovvia è se si tratta di un grande film. Sì, Audiard (Parigi, 1952), insieme a tre sceneggiatori, ha scritto una storia così solida, che nei 150 minuti di film non ci sono cadute di ritmo. Il livello tecnico è molto buono: basta vedere l'inizio (l’ingresso in prigione del protagonista) per rendersene conto. Inoltre, le recitazioni sono eccellenti, con una coppia di attori di grande impatto.

Dal punto di vista della storia, il film è abile nel porre come asse della trama il rapporto teso tra Malik El Djebena, il giovane nordafricano, e Cesare Luciani, prigioniero sessantenne e uno dei capi della mafia corsa, che opera in Francia ed Italia. Lo spaccato del carcere, e anche della strada, è molto duro. Alcune scene sono nauseanti e sembrano voler mostrare la mancanza di umanità che c’è nell’omicidio e nel sesso a pagamento. Come contrappunto, risalta l'intelligenza del ricorso ai sogni ed al simbolico titolo del film.

Audiard fa sì che lo spettatore provi compassione per ciò che si racconta e per i protagonisti, assassini e criminali senza scrupoli, che in nessun momento sono presentati come vittime del sistema, o come persone dall'aura epica. Sono semplicemente dei degenerati, animali nocivi: dentro e fuori di prigione. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, X, D (ACEPRENSA)

Agora

24/4/2010. Regista: Alejandro Amenábar. Sceneggiatura: Mateo Gil. Interpreti: Rachel Weisz, Max Minghella, Oscar Isaac, Ashaf Barhom, Michael Lonsdale, Rupert Evans. 126 min. Adulti. (V)

Immaginate di dover spiegare con un film la realtà degli Stati Uniti a chi è digiuno di storia e di cultura. Ed ecco che per rappresentare la nazione a stelle e strisce, si filmano alcune scene di famiglie giapponesi, nell’intimità. Poi, appare un aereo con un pilota dalla faccia brutale, e fotografie di ragazze sul cruscotto. Infine, vediamo come l’aereo sgancia la bomba atomica sulla città e su quelle famiglie giapponesi. Una volta finito il film, viene detto allo spettatore ignorante: "Vedi, ecco: questa è l'America".



Hiroshima è un fatto. Nessuno ne dubita. Nessuno è felice di questo. Ma il giudizio sugli Stati Uniti che viene dedotto da questo film, non sarà parziale e riduttivo? La risposta è affermativa, anche se Hiroshima resta tragicamente vera. Ebbene ciò vale anche per l'ultimo film di Amenábar, Agora: un fondamento storico reale, molto trucco e un trattamento caricaturale della storia, per far giungere a conclusioni che si rivelano profondamente falsanti.

Amenábar dà comunque un'ennesima dimostrazione del suo valore di regista. Peccato che questa professionalità venga impiegata dal suo genio a sostegno di tesi quanto meno unilaterali. La cosa più interessante è che Agora non sembra essere un film girato nell'era digitale: tutta la scenografia appare reale. La direzione artistica è superba e Rachel Weisz fa, di Ipazia, un personaggio memorabile. Il film è solenne, meticoloso, con una colonna sonora spettacolosa ed un tono ammiccante, che cerca la complicità dello spettatore. C’è molto cinema in Agora, ed è molto fastidioso vedere come il copione rovina il film, man mano che si snoda. Questo sarebbe un film contro l'intolleranza?

Agora è presentato da Amenábar proprio come film contro l'intolleranza. Ma è necessario analizzare l'impostazione scelta dal regista per valutarne l'intenzione. Il contesto storico è dato dai tragici eventi perpetrati da cristiani e pagani in una sommossa, tra il IV e V secolo, ad Alessandria. Secondo lo storico della Chiesa Hubert Jedin, "l'evento più deplorevole nello scontro tra paganesimo e cristianesimo in Egitto è stato la morte della filosofa pagana Ipazia, orribilmente uccisa nel 415, dopo aver subito gravissime ingiurie, ad opera del fanatismo della folla"(1).

Amenábar calca la mano, decontestualizza, semplifica al massimo certi personaggi come San Cirillo o Ammonio Sacca. Questi fatti riprovevoli si situano, quindi, nel contesto del confronto tra due visioni del mondo, due culture: la pagana e la cristiana. Ed è qui che Amenábar vuol cogliere l'occasione per proporre la propria filosofia della storia: alla luce del paganesimo, contrappone il buio del cristianesimo. Se il paganesimo ha rappresentato il progresso, il cristianesimo è il regresso della cultura, della civiltà, della filosofia e della scienza.

Non è una metafora capricciosa: in Agora, i pagani sono vestiti di bianco (Ipazia), e i cristiani di grigio o di nero (Ammonio e Cirillo). A questo schema manicheo, Amenábar fa seguire -nel corso del film- un ulteriore giro di vite: in realtà, il male non è il cristianesimo, ma qualsiasi concezione teologica. Siano dèi pagani o il Dio cristiano ed ebreo: la religione oscura la ragione, disprezza la filosofia, rallenta la scienza ed il progresso. Di fronte allo scetticismo generato dal vedere tanta guerra di religione in un chilometro quadrato, Ipazia dichiara: "io credo nella filosofia". Il cristianesimo ne esce come il carnefice della cultura.

E qui sta la rilevanza di Agora che, sotto le apparenze del film storico, propone una visione molto negativa sul valore attuale delle religioni in generale e del cristianesimo in particolare. Per confutare questa affermazione basterebbe leggersi l'ottimo rigoroso e documentato saggio del sociologo statunitense Rodney Stark, in Italia apparso con il titolo La vittoria della ragione, (ed. Lindau, Torino 2005), dal significativo sottotitolo: “Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza”. L'autore si dichiara non credente.

Tutto ciò, in Agora non s’intuisce, nemmeno lontanamente. I cristiani appaiono barbari, fanatici, misogini, violenti e molto visionari. E i due "buoni" i cristiani che pure vediamo, Sinesio e Davo, sono inquinati lungo il film dall'oscurantismo circostante.

Chi incarna le caratteristiche di un'antropologia cristiana -carità, benevolenza, serenità, tolleranza, incorruttibilità, castità, fratellanza universale, uguaglianza-, è la pagana Ipazia, personaggio che Amenábar trasforma in un affascinante ideale di virtù e in un modello esemplare di intelligenza ed umanità. Ipazia viene proposta come un esempio di santità laica, oggi così di moda.

Certamente ci sono molti episodi della storia della Chiesa dei quali un cristiano non è orgoglioso. Ma questo avverrà sempre, perché la Chiesa è formata da peccatori. Come la sposa del Cantico dei Cantici è “pulchra” e al contempo “nigra”. Anche i papi hanno talvolta chiesto perdono per errori del passato. La coscienza del male e del peccato è sempre stata così chiara, all'interno della Chiesa, da quando Cristo istituì fin dall'inizio il sacramento della penitenza e del perdono. Nessuna organizzazione, associazione o partito conta su di un’istituzione come la confessione, e perciò si dovrebbe almeno concludere che nessuno, quanto i cristiani, ha tanta coscienza del proprio peccato.

Più importante in Agora è il conflitto sotterraneo che induce ad una supposta incompatibilità tra ragione e fede, tra scienza e religione. Sarebbe sufficiente leggere qualcosa, per esempio, Fides et ratio, per capire che la fede non è nemica della scienza o il progresso, né tanto meno della ragione.

Resta comunque il magnifico tributo che Amenábar fornisce in questo film alla scienza antica, e soprattutto all'astronomia. Questo sì, è un omaggio alla ragione che qualsiasi spettatore cristiano godrà come proprio, anche se Amenábar sembra voler ottenere esattamente l'effetto contrario (2).

Per tutti questi motivi è impossibile per un cristiano sentirsi storicamente riconosciuto nella proposta cinematografica di Amenábar, molto apiattita su luoghi comuni, pregiudizi, schemi ideologici e leggende nere. Juan Orellana. ACEPRENSA.

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NOTE

(1) Hubert Jedin, Manual de Historia de la Iglesia, vol. II, Herder, Barcellona, 1990, p. 259.

(2) Non bisogna dimenticare che un personaggio della statura intellettuale di Sant'Agostino è contemporaneo di Ipazia. Anche il successivo passo da gigante in avanti dell'astronomia sarà opera di Niccolò Copernico, nel XV secolo, all'interno di una cultura di matrice cristiana. Coloro che credono che il progresso scientifico sia stata interrotto durante il "medioevo dei secoli bui" farebbero bene a conoscere meglio l'opera di Roberto Grossatesta, Alberto Magno, Ruggero Bacone, Giovanni Buridano, Nicola Oresme ...

Pubblico: Adulti. Contenuti: V (ACEPRENSA)