Harry Potter e il prigionero di Azbakan

26/06/2004. Regista. Alfonso Cuarón. Sceneggiatura: Steven Kloves. Interpreti: Daniel Radcliffe, Rupert Grint, Emma Watson, Gary Oldman, Alan Rickman. 142 min. USA. 2004. Giovani.

Terzo film sulle avventure del giovane mago, adattamento di quello che sembrerebbe il miglior romanzo della serie.

Sirius Black è fuggito dalla prigione di Azbakan e i temibili dissennatori mangia-anime circondano Hogwarts per impedirne l’ingresso.

Il messicano di 42 anni Alfonso Cuarón (Y tu mamá también –Anche tua madre, Paradiso perduto), che sostituisce qui Chris Columbus, è il regista di un film che ricalca sceneggiature caratterizate da prevalenza di esterni e di toni più scuri. Se lo spettacolo sembra capace di spaventare i più piccoli, la storia tende a risultare lunga e complessa per il pubblico di adulti.

Cuarón ha affidato il montaggio a Wiesberg (Le parole che non ti ho detto, Men in black 2, Betty Love), ma non sembra che sia riuscito a migliorare il ritmo dei film diretti da Columbus, caso mai il contrario. Cambia anche il direttore di fotografia, che qui è il neozelandese Seresin, assiduo collaboratore di Alan Parker (da Bugsy Malone [1976] fino a The Life of David Gale [2003] passando da Fuga di mezzanotte, Saranno famosi, Spara alla luna, Le ceneri di Angelica). È lui forse, il responsabile di quell’atmsofera più tenebrosa del film che, in vero, appare non molto azzeccata.

Non sono invece cambiati i responsabili della colonna sonora e del disegno di produzione, John Williams ed Stuart Craig, grandi nomi dell’industria cinematografica. Per Craig, in particolare, l’atmosfera british sembra non aver segreti. Ma appare logico, se si pensa al fatto che a lui si devono le sceneggiature di Viaggio in Inghilterra, L’uomo elefante, Ghandi, Menphis Bell, Greystoke, Il paziente inglese, Il giardino segreto, Nottingh Hill, tra altre.

Una divertente e confusionaria Emma Thompson entra a far parte del corpo d’insegnanti di Hogwarts, mentre diverse sequenze comiche e una trama abbastanza imprevedibile sembrano fatte apposta per i fedeli lettori della Rowling, che si ritroveranno certo a loro agio, in scene come quelle dell’hockey aereo, del salice pugilatore, delle scale a geometria variabile, negli andirivieni intorno alla scuola, o davanti al malvagio Draco Malfoy con la sua inossidabile faccia da schifo. Cuarón si sofferma maggiormente sul terzetto di preadolescenti (Harry, Hermione, Ron) preoccupandosi poco dal resto, cosa che può non risultare a tutti gradita. Gli eccellenti effetti scenici sono esaltati nella sequenza dell’ippogrifo e nella divertente scena iniziale, a casa degli antipatici zii di Harry. Rifulge ancora il talento della Rowling nel descrivere scene fantastiche, che, com’è logico, appaiono dotate di maggiore impatto e coinvolgomento emotivo nei libri, molto più poliedrici nello stimolare l’immaginazione. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Duplex - Un appartamento per tre

26/06/2004. Regista: Danny DeVito. Sceneggiatura: Larry Doyle. Interpreti: Ben Stiller, Drew Barrymore, Eileen Essel, Harvey Fierstein, Justin Theroux, James Remar. 97 min. USA. 2004. Giovani

Danny DeVito sembra avere un debole per commedie più o meno stravaganti, con personaggi perennemente in conflitto, che iniziano con l’infilare sassolini nella scarpa del prossimo, fino ad attentare all’integrità fisica altrui. Se qualcuno ne dubita, basta ricordarne i precedenti da regista: Getta la mamma dal treno (remake in chiave umoristica di L’altro uomo –Delitto per delitto), La guerra dei Roses (una coppia che si odiano a morte), Matilda 6 mitica (Una bambina in una scuola diretta da una donna dispotica), Eliminate Smoochy (la vendetta di un comico, retrocesso ad un programma per bambini). In questo senso, Duplex offre qualcosa di più dal background di commediografo di DeVito, affrontando il tema delle sofferenze di una giovane coppia di sposi, al momento della presa di possesso della nuova casa, un duplex. Nell’appartamento superiore abita una vecchietta solo apparentemente adorabile, ma capace, in realtà, di render loro la vita impossibile.

Il film è un cumulo di gags, di autentico humour nero. Così si susseguono le richieste di servizi da parte della vecchietta, che sempre finiscono per produrre pessimi effetti: insonnia, mancanza d’intimità, rumori, lei che perde l’impiego, lui che incontra molte difficoltà nello scrivere il suo libro… Le scomodità aumentano progressivamente a tal punto, che i due sposi decidono di passare alla rappresaglia. DeVito riesce a suscitare momenti davvero esilaranti, sia col dialogo sia con la mimica, ricorrendo ad uno stile da cartoon che ha gìa dato buona prova di sé in Mamma ho perso l’aereo. Il principale neo del film riguarda l’unica situazione dove, a tutti costi, si vorrebbe sperimentare qualcosa di assolutamente nuovo. Col risultato di scadere, purtroppo, nel più scontato dei difetti: la volgarità. Non sembra nemmeno agevole portare a conclusione la storia, fino all’ultimo giro di vite. Francamente, stupisce la richiesta da parte dei distributori di non svelare il finale, che si rivela un maldestro trucco da prestigiatore di paese. In ogni caso, Ben Stiller, Drew Barrymore ed Eileen Essel dimostrano a iosa la loro predisposizione per la commedia. José María Aresté. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani. Contenuti specifici: V, S, D, F. Qualità tecnica: * (MUNDO CRISTIANO)

Out of time

26/06/2004. Regista: Carl Franklin. Sceneggiatura: David Collar. Interpreti: Denzel Washington, Eva Mendes, Sanaa Lathan, dean Cain. 104 min. USA. 2003. Adulti.

Nel bel mezzo del suo processo di divorzio, il capo della polizia di un paese della Florida si trova coinvolto in un duplice omicidio. Carl Franklin (Il diavolo in blu) maschera la pochezza del copione dietro un’agile realizzazione, un humour efficace e una buona direzione degli attori. Ciò malgrado non riesce a rendere credibile il personaggio di Eva Mendes e ostenta spesso un tono violento, con propensione all’osceno.

Pubblico: adulti. Contenuti specifici: V+, X, D, F. Qualità tecnica: ** (MUNDO CRISTIANO)

Abandon (Misteriosi omicidi)

26/06/2004. Regista: Stephen Gaghan. Sceneggiatura: Stephen Gaghan. Interpreti: Katie Holmes, Benjamin Bratt, Charlie Hunman, Zooey Deschanel, Mark Feuerstein. 99 min. USA. 2002. Adulti.

Katie è una brillante studentessa universitaria, prossima alla laurea in economia aziendale. Tuttavia, la preparazione degli ultimi esami, la redazione della tesi di laurea, le prime interviste di lavoro, una più aggressiva dell’altra, la portano sull’orlo della crisi di nervi. In tali circostanze, un giovane poliziotto che da anni cerca di uscire dal tunnel dell’alcolismo, la interroga sulla scomparsa del suo ex fidanzato, Embry, giovane creativo e miliardario fuori dagli schemi, scomparso due anni prima senza lasciar traccia. Tra il detective e la giovane, si instaura una sintonia immediata.

Stephen Gaghan segue il filone di sceneggiatori statunitensi di prestigio che debuttano alla regia. Vincitore nel 2001 dell’Oscar al migliore sceneggiato originale (Traffic), in Abandon riesce a sposare, con successo, due generi di film apparentemente distanti: il thriller poliziesco a tinte nere, e l’intrigo (terribile) ambientato nelle aule dell’Università. Probabilmente, si deve all’eccellente direzione degli attori se l’improbabile duo formato da Katie Holmes e Benjamin Bratt finisce per riuscire credibile, così come la loro drammatica relazione sentimentale, sempre minacciata dall’inquietante e minacciosa presenza di Charlie Hunman, eccellente nei panni di Embry. D’altro canto, Gaghan propone una visione superficiale del sesso, eccedendo nelle solite scene ambientate in camera da letto e sembrerebbe svelare un po’ troppo le sue trame narrative. In ogni caso, riesce a mantenere fino alla fine la fragile tensione dell’intrigo, elevandone gli aspetti drammatici grazie ad un quadro veritiero sui moderni stati di stress e nevrosi, ma soprattutto si impone grazie alla critica demolitrice di quella morale del successo ad ogni costo. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: adulti. Contenuti specifici: V, S+, D+, F. Qualità tecnica: *** (MUNDO CRISTIANO)

50 volte il primo bacio (50 first dates)


19/06/2004. Regista. Peter Segal. Sceneggiatura: George Wing. Interpreti: Drew Barrymore, Adam Sandler, Sean Astin, Rob Schneider, Dan Aykroyd. 99 min. USA. 2004. Giovani-Adulti.

Tra le storie che affascinano i cultori della commedia romantica, va annoverato questa, sullo stile di Ricomincio da capo. Un veterinario di un parco acquatico alle Hawai s’innamora di una professoressa d’arte affetta da un particolare disturbo mentale, che ogni notte, le provoca la cancellazione della memoria.

Le idee geniali tuttavia, meritano un copione all’altezza e che sappia toccare le corde giuste, proprio ciò di cui è carente il film, nonostante alcuni spunti di rilievo. La realizzazione di un tale soggetto, con registi del calibro di Capra o McCarey avrebbe garantito un prodotto indimenticabile. In questo caso, invece, delude i bambini perché grossolana e volgare (soprattutto alcuni dialoghi osceni) e risulta infantile e ripetitiva agli adulti. Barrymore è molto simpatica e credibile, mentre Sandler non va oltre la sufficienza.

Molto divertenti il papà e il fratello della smemorata (l’hobbit Sam de Il Signore degli anelli), che rendono casa propria un laboratorio ideale per la produzione di situazioni comiche. Magnifica la fotografia di Jack Green, collaboratore abituale di Clint Eastwood. Insisto: è un vero peccato che questo progetto sia stato affidato all’autore di film, che certo non definiremo “indementicabili”, come Una pallottola spuntata calibro 33, La famiglia del professore matto e Terapia d’urto. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Good bye Lenin!

19/06/2004. Regista: Wolfgang Becker. Sceneggiatura: Wolfgang Becker, Bern Lichtenberg. Interpreti: Daniel Brühl, Katrin Sass, Chulpan Khamatova, Maria Simon. 120 min. Germania. 2002. Giovani.

Di produzione tedesca, il film ha ricevuto il premio Angelo Blu per il miglior film europeo al Festival di Berlino 2003. Bravi il regista Wolfgang Becker e la protagonista, un’eccellente Katrin Sass. Molto originale l’idea da cui scaturisce il film. Nel 1989, la signora Kerner è convinta fautrice del socialismo reale. Come cittadina della Berlino comunista vive completamente dedita al partito e alla diffusione della dottrina comunista. Finita in coma, per un infarto, si risveglia mesi dopo in una Germania riunificata, dove la cortina di ferro è ormai un ricordo. È a questo punto che il figlio, Alex, durante la convalescenza della madre a letto, preferisce farle credere che nulla è cambiato, onde evitarle ulteriori shock. Ma risulta sempre più difficile mantenere questa finzione.

Il film, a metà tra il dramma e la commedia, finisce per ottenerne un cocktail gradevole. Si critica il comunismo e, al contempo, si demitizza il capitalismo; si giudicano le menzogne, cui tanto spesso ricorrriamo per piegare la realtà ai nostri desideri; si loda il sacrificio di vivere per gli altri e si profila il tipo di società ideale. Senza scadere nell’utopia, l’abilità del regista indugia sui personaggi, alle volte meschini, pieni di luci e ombre, ma sempre vivi e credibili.

Good by Lenin! è film un po’ discontinuo, alle volte schematico, ma sempre su una falsariga spontanea e leggera dove niente appare troppo fuor di luogo. Ottima la scelta degli attori, capaci in ogni momento di evocare la complicità del pubblico. Ne viene fuori un’interessante metafora sulla caduta delle ideologie. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani. Contenuti specifici: V, S+, D, F. Qualità: *** (MUNDO CRISTIANO)

In america

19/06/2004. Regista. Jim Sheridan. Sceneggiatura: Jim, Naomi e Kirsten Sheridan. Interpreti. Samantha Morton, Paddy Considine, Sarah Bolger, Emma Bolger, Djimon Hounsou. 103 min. Irlanda-GB. 2002. Adulti.

L’ultimo film dell’irlandese Jim Sheridan (Nel nome del padre), appare una sfida a sé stesso, molto significativa. La trama, scritta dallo stesso Sheridan e dalle figlie Naomi e Kirsten, spiega il carattere intimamente famigliare dell’argomento. Il film, a forte contenuto autobiografico, è dedicato ad un fratello di Sheridan, Frankie, come è anche il nome del protagonista che lo imita nel film, ivi incluse le circostanze della sua morte.

Racconta la storia di una famiglia cattolica che emigra dall’Irlanda a New York in cerca di lavoro, dopo l’11 settembre, finendo in un quartiere ancora più insicuro della stessa città. Senza un dollaro in tasca, Johnny e Sarah s’insediano in una casa popolare abitata da tossicomani, drag queens e altri personaggi poco raccomandabili. La vita è molto dura. Ma sono le due figlie a prenderla nel verso giusto, grazie alla loro fede in Dio, nei miracoli e nella risurrezione. Questa fede risulterà decisiva dopo l’incontro col temuto vicino, Matteo, soprannominato dalle bambine: “L’uomo che grida”. Gli attori sono eccellenti. Paddy Considine e Samantha Morton interpretano i genitori, e, altra coincidenza famigliare, le figlie sono interpretate da due sorelline, Sarah ed Emma Bolger, notevoli per profusione di eloquenza ed espressività. Djimon Hounsou incarna Matteo, pittore eccentrico e solitario, ma profondamente credente, che propizierà la salvezza della famiglia.

La vera minaccia non è un’aggressione esterna, bensì un conflitto interno. In America è, innanzitutto, una riflessione sulla famiglia. Non la famiglia idilliaca de La casa nella prateria, ma una famiglia segnata dal dolore, bisognosa di un intenso lavoro di purificazione. Saranno proprio i profondi legami affettivi a consentire, a ciascun membro della famiglia, di superarele proprie ossessioni. Quella comune a tutti è la morte di Frankie, unico figlio maschio, morto a due anni di tumore cerebrale. La madre assume su di sé il dramma, volontaristicamente (“bisogna vivere come fossimo attori”); il padre, con una specie di atarassia nichilista, satura di rancore verso Dio (“ho giurato a Dio che non gli riuscirà più di farmi piangere”, “Io non mi inginocchio più”); invece, le bambine soffrono il dolore con maturità, avendo fede in Dio e nell’immortalità di Frankie.

Anche se appare un po’ sfumato il confine tra superstizione e fede, Jim Sheridan non affida il sogno americano alle solite chiavi del successo professionale ed economico, ma al raggiungimento della propria salvezza. Appare una riproposizione fresca e originale di quel In God We Trust, stampato sui dollari in banconota. In ogni caso, si tratta di un film commovente, duro e pieno di speranza, nel solco di Capra, De Sica e Kazan, anche se più esplicito nel trattare di sesso. Da non perdersi, la posizione sostenuta rispetto all’aborto. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: adulti. Contenuti specifici: V, X, D. Qualità: **** (MUNDO CRISTIANO)

Dopo mezzanotte

19/06/2004. Regia: Davide Ferrario. Sceneggiatura: Davide Ferrario. Interpreti: Giorgio Pasotti (Martino), Francesca Inaudi (Amanda), Fabio Troiano (Angelo). 90 min. Italia. 2004. Adulti.


Dentro la Mole Antonelliana di Torino, da non molti anni, è stato collocato un bel Museo del Cinema. Martino ne è il guardiano notturno e passa le notti guardando film muti d'inizio secolo. Esce solo per andare al fastfood lì vicino e per ammirare in segreto Amanda, che lavora in quel locale. Una sera Amanda versa dell'olio bollente addosso a quell'antipatico del gestore del ristorante; è ormai mezzanotte e non le resta che nascondersi all'interno del museo.....

Negli ultimi tempi Torino è decisamente diventato il luogo preferito per ambientare film sperimentali, freschi e giovanili, fuori dalle anguste leggi di un cinema commerciale (il regista Davide Ferrario si è autofinanziato). In questa stessa stagione è già uscito, simile per la tematica giovanile, A/R Andata+Ritorno di Marco Ponti: lì gli amori sbocciavano passeggiando lungo il Museo Egizio; qui nelle lunghe notti passate all'interno del Museo del Cinema. Davide Ferrario, dopo un debutto non molto felice con Guardami seguito dal più noto Tutti giù per terra, cambia completamente registro con un film disincantato, sulla solitudine ma anche sulla potenza aggregatrice dei sogni. E' il Museo a regalare la magia necessaria al film: fotografato dall'esterno, il profilo della Mole ci appare inquietante, illuminato sinistramente dalle luci al neon di una Torino fotografata quasi sempre di notte. All'interno, dopo mezzanotte, l'unico abitante è Martino, il guardiano notturno, che ne conosce i più segreti anfratti e che riesce a far rivivere i tanti fantasmi di celluloide che popolano questo castello. E' sopratutto il cinema dell'era pioneristica che lo affascina: dai primi caleidoscopi, alle scatole cinesi, ai film muti di Buster Keaton per arrivare a Il Fuoco, film di Giovanni Pastrone del 1915. Martino ha creato per sé un mondo a parte e vive come se la vita fosse un film e non viceversa. Va in giro con una vecchia cinepresa a manovella, riprende luoghi solitari di Torino, il fastfood dove lavora Amanda, per costruire quel film che dovrebbe essere la sua vita.

Amanda, stretta fra un lavoro mortificante e il suo fidanzato Angelo, capo banda abbastanza innocuo di un terzetto di ragazzi che ruba auto su commissione, finisce anche lei per entrare in questo mondo fuori dal mondo. Prima fisicamente nel Museo, per cercare di non farsi trovare dal gestore del ristorante, poi nello stesso gioco di illusioni di Martino, in quel castello incantato dove le angosce del mondo restano fuori e la stessa Torino, vista dalla cima della Mole, mostra il suo lato più bello.

I due giovani non possono essere più diversi: abituato a vivere da solo lui, si trova a dover condividere il suo mondo segreto; lei che avrebbe tanto bisogno di aggrapparsi a qualcosa di concreto, si ritrova in un universo surreale.

Segue inevitabilmente l'incontro amoroso che diventa quasi subito un triangolo perché lei in fondo sta bene con Martino ma anche con Angelo. Per fortuna la vicenda sentimentale non fa virare il film nel patetico o nel dramma popolare ma mantiene la sua leggerezza fino ad un fortunoso e "selettivo" lieto fine.

Storia minima? Si. Film culto per soli cinefili? Probabile.

Ma raccontato bene e con bravi attori. Peccato che la levità si sia trasferita anche nella leggerezza con cui vengono affrontati i problemi di cuore. Franco Olearo. Per gentile concesione di FAMILYCINEMATV.

Valori/Disvalori: - 2. Una ragazza risolve i suoi problemi sentimentali in un modo un po' troppo ecumenico.

Si suggerisce la visione a partire: Adulti. Per un paio di scene di nudo

Giudizio Tecnico: *** . Film in delicato equilibrio fra realtà e fantasia che evita di scivolare nell' intellettualismo cinefilo grazie a una buona dose di autoironia (FAMILYCINEMATV)

Mona Lisa Smile


19/06/2004. Regista: Mike Newell. Sceneggiatura: Lawrence Kooner, Mark Rosenthal. Interpreti: Julia Roberts, Kirsten Dunst, Julia Stiles, Maggie Gyllenhaal. 117 min. USA. 2003. Adulti.

Nel 1953, una professoressa di storia dell’arte arriva al Wellesley College, prestigiosa università privata vicino a Boston, esclusivamente per donne, fondata nel 1875, e specializzata in scienze umanistiche. Julia Roberts ritorna al cinema in una versione femminile e piena di topici del L’attimo fuggente. Il veterano Mike Newell (Quattro matrimoni e un funerale), regista britannico che ha lavorato soprattutto per la tv, si è ritrovato tra le mani una trama mediocre, poco curata e conclusa peggio.

Il sorriso di Monna Lisa, nonostante la presenza di splendide attrici e di un allestimento scenico molto curato, è un flop clamoroso, perché il rozzo copione di Rosenthal e Konner (Il pianeta delle scimmie –remake di Burton-, Mercury Rising, Il gioiello del Nilo) propenso a facile manicheismo, inconsistente e mal congegnato, appare inadatto ad articolare l’intensità delle storie personali che si intrecciano: la professoressa in crisi esistenziale che affronta un muro di puritanesimo repressivo; l’allieva che si lega sentimentalmente al professore; la prima della classe che pensa solo al prestigio sociale; la ragazza innamorata pronta a rinunciare alla carriera universitaria, per diventare donna di casa; la professoressa lesbica ricattata; il professore seduttore.

Valutare il passato con categorie attuali è un diffuso vezzo cinematografico che può irritare chi, più o meno, conosce l’argomento. Non risulta convincente, né risponde a giustizia, il profilo di un’istituzione dove insegnò Nabokov e dove si sono formate molte donne artefici di rilevanti carriere, come la già segretario di Stato Madeleine Albright, la regista Nora Ephron o la senatrice Hillary Clinton. Anche se qualcuno stenta a capirlo, negli anni Cinquanta molte donne non consideravano il matrimonio e la famiglia come una prigione. Cosa ben diversa è quello che oggi pensano le donne universitarie sulle loro priorità decisionali , nel conciliare vita professionale e vita famigliare. Non giova comunque a nessuno servirsi di un film d’epoca, per ammannire una congerie di luoghi comuni. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: adulti. Contenuti specifici: S+, D, F. Qualità: ** (MUNDO CRISTIANO)

Il tempo dei lupi (Le temps du loup)


12/06/2004. Regista: Michael Haneke. Sceneggiatura: Michael Haneke. Interpreti: Isabelle Huppert, Maurice Benichou, Lucas Biscombe, Patrice Chereau, Béatrice Dalle. 113 min. Francia. 2003. Adulti.

Il controverso regista austriaco Michael Haneke, autore di film così diversi come La pianista o Storie – Racconto incompleto di diversi viaggi (Code Inconnu), ci offre in quest’opera una visione apocalittica, di cui si avvale per analizzare a fondo il comportamento umano in situazioni estreme. Una famiglia, in fuga da un misterioso cataclisma, cerca di rifugiarsi nella propria casa di campagna, nel frattempo già occupata da un’altra famiglia. Dopo un violento conflitto, in cui muore il capofamiglia, moglie e figli intraprendono una fuga disperata fino ad imbattersi in un altro gruppo di rifugiati, senza però che la situazione migliori..

Anche se il film vuol lasciare una porta aperta alla speranza, espone una rassegna di miserie umane capaci di prostrare lo spettatore. Certamente ci sono personaggi e gesti dotati di umanità, ma sommersi in un’atmosfera asfissiante e sordida, maldestra imitazione di Aspettando Godot. Il titolo, Il tempo dei lupi, già utilizzato da Bergman, allude -nella tradizione germanica- al momento che precede la fine del mondo.

Buona la realizzazione e ben diretti gli attori. Il film risulta invece pesante per il suo iperrealismo e strumentale pessimismo. Si tratta di un tipico prodotto da festival cinematografico, oggetto di critiche intellettuali, ma molto lontano dalle motivazioni e dalle preferenze del grande pubblico. Malgrado l’ispirazione ad autori come Bergman e Tarkovsky, il film appare molto distante dalla sincerità e dall’efficacia di quei registi. Alquanto indigesto.

Juan Orellana. ACEPRENSA.

Bowling a columbine - Una Nazione sotto tiro

12/06/2004. Regista. Michael Moore. Sceneggiatura: Michael Moore. Documentario. 123 min. USA. 2002. Giovani-Adulti.

Oscar 2002 per il migliore documentario, quest’opera ha ottenuto il premio speciale a Cannes e il premio César, del cinema francese, al miglior film straniero. Michael Moore è personaggio assai noto negli USA, grazie sopratutto a due serie di telefilm di gran successo (TV Nation –premio Emmy 1995- e The Awful Truth).

“Siamo pazzi per le armi o semplicemente siamo pazzi?” È l’interrogativo costante che riaffiora nelle due ore di documentario, caratterizzato dai travolgenti ed esilaranti 30 minuti iniziali, anche se lo spettacolo tende poi a perdere progressivamente di livello. Per rispondere a quella domanda sottesa al film, Moore teorizza quella cultura della paura, che si perde alle origini della società statunitense. Una paura quasi generalizzata, che ha indotto gli americani ad armarsi fino ai denti (250 milioni di pistole e fucili, di proprietà di quei bianchi che, per lo più, abitano zone residenziali senza problemi di delinquenza, secondo Moore). Due tragici eventi (la strage perpetrata da due studenti alla Columbine School e la morte di una piccola di sei anni per mano di un coetaneo di colore, munito di una pistola trovata a casa di parenti) costituiscono i colpi ad effetto della narrazione di Moore, ricca di testimonianze.

In diversi momenti, il film spinge alla riflessione. E lo fa con grazia, agilità e notevole forza narrativa (agevolata da una degna colonna sonora). La tendenza ovunque presente, nel cittadino qualunque e nelle autorità, a reagire sproporzionatamente davanti gli eventi, viene presentata col notevole humour usato da Moore, per mettere alla berlina quel razzismo endemico e quel capitalismo incapace di solidarietà, presenti in quella società.

Durante le riprese del film, gli attentati del famigerato 11 settembre hanno sconvolto il piano iniziale di Moore. Il regista ha finito per esagerare la propria linea, scadendo in una frettolosa e populista sintesi della violenta storia degli USA, scadendo in una caustica pantomima. È deplorevole che proprio Moore venga meno a quell’equilibirio che pretende, ripetutamente, dai connazionali. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani-adulti. Contenuti: V+, S+, D+, F. Qualità: *** (MUNDO CRISTIANO)

Zatoichi

12/06/2004. Regista: Takeshi Kitano. Sceneggiatura: Takeshi Kitano. Interpreti: Takeshi Kitano (Beat Takeshi), Tadanobu Asano, Michiyo Ogusu, Gadarukanaru Taka, Daigoro Tachibana. 116 min.Giappone. 2003. Giovani.

Il regista Takeshi Kitano (Tokio, 1947), ha raggiunto un ben meritato prestigio. Le sue singolari doti artistiche riescono a temperare, con la sua squisita sensibilità, la costante presenza di una violenza spesso sanguinaria. Kitano ha iniziato a dirigere nel 1989, dopo essere stato il noto interprete dal soprannome espressivo Beat Takeshi, di un personaggio squadrato, dal volto impenetrabile, che distribuisce botte e proiettili, senza mai scomporsi. Fin qui, niente di originale. I film diretti e interpretati da Kitano però, se è vero che sono violenti (Hana-bi, Sonatine, L’estate di Kikujiro), risultano sempre accompagnarti da uno humour e da una delicatezza tali, da arginare col buonsenso tanta irrazionalità belluina.

Zatoichi è il primo film d’epoca di Kitano, tratto dal popolare racconto delle avventure di un massaggiatore cieco, incredibilmente abile a brandire la katana. La storia, scritta nel XIX secolo, è divenuta assai popolare in Giappone anche grazie agli sceneggiati tv ed a precedenti film. L’eccellente trama consente a Kitano di evitare il rischio tipico di questo genere di storie (l’azione che finsce per annullare l’umanità dei personaggi). Ilarità e tenerezza contradistinguono le trame di vendetta, ambizione e crudeltà nella storia di due sorelle, da anni sono sulle tracce degli assassini dei genitori. Il talento di Kitano emerge nel modo di presentare i personaggi e di far convergere le distinte storie delle due sorelle, del massaggiatore cieco, e del ronin, nel gran finale.

Takeshi Kitano gira con maestria i combattimenti e motiva la straordinaria rapidità con cui arrivano a termine, secondo il suo stile, in modo semplice e intelligente: un grande guerriero è immediatamente letale. Pertanto, non ha bisogno di interminabili scambi di colpi. Grazie a tali sorprendenti scelte, e allo sviluppo di un linguaggio cinematografico pieno d’invenzioni formali assai originali e apprezzabili, Kitano estrae un film atipico di spadaccini vendicatori, dove quasi tutto interessa e seduce, si tratti di una partita a dadi, o di un ballo coi ventagli, di un ragazzo strillone e ciccione che vuol diventare samurai, o di una nonna servizievole, pronta ad accogliere un vagabondo cieco. Meritati, dunque, i premi del Leone d’argento al miglior regista e il Premio del pubblico, vinti al Festival di Venezia 2003. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani. Contenuti specifici: V+, S, F. Qualità: *** (MUNDO CRISTIANO)

Calendar girls

12/06/2004. Regista: Nigel Cole. Sceneggiatura: Tim Firth, Juliette Towhidi. Interpreti: Helen Mirren, Julie Walters, John Alderton, Linda Bassett, Annette Crosbie, Philip Glenister. 108 min. GB. 2003. Giovani-adulti.

La nuova commedia di Nigel Cole (L’erba di Grace) ripropone un fatto, risalente al 1999, quando delle rispettabili cinquantenni britanniche, appartenenti al Women’s Institute di Yorkshire, fecero pubblicare un calendario di beneficienza dove comparivano, nell’atto di svolgere attività quotidiane come cucina, giardinaggio, ecc…, in modo tale da intuirne la completa nudità, ben dissimulata da elementi di arredamento piazzati ad hoc.

L’avventura di tali donne rappresenta la versione al femminile di The Full Monthy, narrata con grazia e charme, praticamente esente da morbosità. La prima parte del film, deliziosamente britannico, s’incentra su come salvare la forma, nelle situazioni più ridicole. L’eccellente cast, guidato da Hellen Mirren, regge bene un copione scorrevole, senza entrare nel merito della questione se il fine benefico giustifichi quel calendario. La visione amorale e sfumata del pudore e dell’esibizionismo sessuale, esalta la bellezza della maturità ed ironizza sulla frivola commercializzazione del sesso e sui limiti dell’arte, a maggior ragione, quando suscita le passioni più basse.

La seconda parte, ridotta nel tempo e in rilievo, scade alquanto. Dopo il successo ottenuto col calendario, ecco la fama, le crisi familiari, il viaggio a Hollywood, le proposte di nuovi contratti.. Si tratta di uno sviluppo, per lo più inutile, che dimentica le diverse interessanti storie sotto traccia, abbozzate invece all’inizio del film. Come nel caso di L’erba di Grace, Nigel Cole ci proprone un lavoro incompleto. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani-adulti. Contenuti specifici: S+, D, F. Qualità: *** (MUNDO CRISTIANO)

Matrimonio imposible (The in-laws)

Regia: Andrew Fleming. Sceneggiatura: Nat Maudlin,Ed Solomon. Interpreti: Michael Douglas, Albert Brooks, Ryan Reynolds, Lindsay Sloane, Candice Bergen, Robin Tunney,Perry Perlmutar. 97 min. USA/Germania 2003. Censura USA: PG-13. Giovani.

Jerome Peyser (Albert Brooks) – metodico podologo e padre apprensivo – sta programmando il matrimonio della figlia in ogni minimo dettaglio. L’unica cosa che non ha considerato è che il padre dello sposo (Michael Douglas) è un agente della CIA coinvolto in segretissimi traffici internazionali. Rocambolesche avventure fra America ed Europa costringeranno Jerome a superare le proprie ansie e renderanno il matrimonio molto diverso da come lui lo aveva programmato e più simile a come lo aveva desiderato sua figlia.

È un peccato che un umorismo piuttosto greve abbia rovinato questa buona idea per una commedia. Che l’idea fosse buona lo mostra il fatto che il film del ’79 di cui Matrimonio impossibile è il remake – Una strana coppia di suoceri, di Arthur Hiller, con Alan Arkin e Peter Falk – era davvero un film gradevole. Che gli autori di Matrimonio impossibile abbiano rovinato quell’idea lo mostrano i deludenti risultati al botteghino e il fatto che il film susciti poche risate – più o meno due nell’arco dei 97 minuti – e spesso invece infastidisca con un monotono umorismo da spogliatoio.

Gli ingredienti erano già tutti lì: i preparativi per un matrimonio (al centro di commedie memorabili come Indovina chi viene a cena o Il padre della sposa), la strana coppia di eroi d’avventura, il pesce fuor d’acqua. Era sufficiente amalgamarli con un certo mestiere per ottenere una commedia che se non in cima alla classifica avrebbe potuto almeno diventare un long seller nell’affitto di home video per famiglie.

Invece ci si è accontentati di percorrere scorciatoie: situazioni comiche banali quando non grossolane, colonna sonora inutilmente molto chic, can-can di effetti speciali per movimentare le sequenze di azione, riciclaggio di un attore ex eroe action e ex sex symbol.

Eppure della coppia di sceneggiatori fa parte anche Ed Solomon, autore di ottimi film come Men in Black e X men. Peccato, il risultato è un film che fa un po’ di tutto per non annoiare, ma quasi nient’altro. Francesco Arlanch.

(la recensione è tratta dal libro "Film di valore" di prossima pubblicazione presso le edizioni ARES, a cura di A. Fumagalli e L. Cotta Ramosino).

Per gentile concessione di www.familycinematv.it.

Elementi problematici per la visione: frequenti situazioni e dialoghi volgari.

L'Alba del giorno dopo (The day after tomorrow)

5/06/2004. Regista: Roland Emerich. Sceneggiatura: Roland Emerich, Jeffrey Nachmanoff. Interpreti: Dennis Quaid, Jake Gyllenhaal, Emmy Rossum, Dash Mihok, Jay O. Sanders, Sela Ward. 124 min. 2004. Giovani.

Film del genere catastrofico, espone un problema di grande attualità: i mutamenti climatici. Un’improvvisa modifica di una corrente dell’Atlantico produce un cataclisma di proporzioni globali. Disgelo, tempeste, uragani, inaugurano la nuova era glaciale. Una delle città colpite è New York, dove Sam Hall rimane bloccato con alcuni amici in una biblioteca pubblica. Ma papà Hall, esperto in climatologia, corre in loro aiuto.

Il film di Roland Emerich (Independence Day, Il patriota) rivisita i canoni classici del genere, fedele allo schema di passare in rassegna i diversi personaggi, mostrandoli in pericolo. A suo favore, si impongono stupefacenti effetti speciali, con cui si mostra “La Grande Mela” , prima inondata e poi coperta di neve. Altrettanto valida, la scelta del bravo Jake Gyllenhaal, adolescente difficile un po’ alla Tobey Maguire in L’Uomo ragno (Spider-Man).

Il film presenta qualche spunto originale (gli onnipotenti Stati Uniti che chiedono aiuto al Terzo Mondo, il rogo dei libri per riscaldarsi) anche se mostra alcuni limiti: l’ostinazione del padre alla ricerca del suo rampollo, appare poco verosimile. Per non parlare del finale di un film, i cui eventi si succedono senza un filo conduttore e privo di riferimenti a contenuti più profondi, in una storia che ambisce presentare quasi un’imminente fine del mondo. José María Aresté. ACEPRENSA.

El abrazo partido

5/06/2004. Regista. Daniel Burman. Sceneggiatura: Marcelo Birmajer, Daniel Burman. Interpreti: Daniel Hendler, Sergio Boris, Adriana Aizember, Jorge D’Elia. 100 min. Argentina. 2004. Adulti.

Premio speciale della giuria e all’attore Daniel Hendler (Berlino 2004), questo film dell’ebreo argentino Daniel Burman (Todas las azafatas van al cielo), sceglie un’impostazione decisamente più vicina al teatro. La scena si svolge in una galleria commerciale di un quartiere, il popoloso Once di Buenos Aires, dove abitano molti ebrei di origine polacca. Ariel, il classico immaturo che aiuta la madre, proprietaria di un negozio di biancheria, vuole andarsene in Europa. Deve quindi dimostrare le sue origini polacche.

Il tono corale, sulla falsariga di Il figlio della sposa, propone situazioni divertenti e brillanti. Le realizzazioni con la cinepresa risultano agili e di buona fattura, al servizio di una trama vivace ed evocativa, dove tutti appaiono all’altezza. Ovunque, impera l’inquietudine per il dissesto economico di una nazione in crisi. Stona un grossolano episodio di banalizzazione del sesso, che appesantisce questa simpatica commedia, che tale deve restare. Quando infatti, pretende di darsi un tono superiore, rasenta il ridicolo. Inoltre, non riesce a scrollarsi di dosso un’eccessiva improvvisazione, che penalizza la caratterizzazione dei personaggi.

Sorprende il profitto che Burman è capace di trarre dalla sue frequenti riprese sulla galleria commerciale. A questa abilità fa riscontro il montaggio, molto dinamico e ben calato in una trama (frequente l’uso della camera a spalla), che resta esente da cadute di tono. El abrazo partido dà un’ulteriore dimostrazione, a parte i difetti (la voce in off, ad esempio), del netto divario tra questo tipo di cinema argentino e la analoghe produzioni dei cugini spagnoli. Alberto Fijo.. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani-adulti. Contenuti: S, D, F. Qualità: *** (MUNDO CRISTIANO)

Un film parlato (Un film falado)

5/06/2004. Regista: Manoel de Oliveira. Sceneggiatura: Manoel de Oliveira. Interpreti: Leonor Silveira, Filipa de Almeida, John Malkovich, Catherine Deneuve, Irene Papas, Stefania Sandrelli, Luis Miguel Cintra. 96 min. Portogallo. 2004. Tutti.

Una professoressa di storia, con la figlia di otto anni, s’imbarca per una crociera nel Mediterraneo. Il coniuge li aspetta all’arrivo, a Bombay. Gli scali danno occasione alla madre (un’abbagliante Leonor Silveira) di spiegare alla figlia i fondamenti della nostra civiltà. Sulla nave, faranno amicizia col comandante –nordamericano di origine polacca- e con tre distinte e mature signore: un’imprenditrice francese, una modella italiana ed una cantante greca.

Il portoghese Oliveira celebra i 95 anni (il regista attivo più longevo del mondo) con un film sublime, nel quale si parla con raffinata abilità delle radici dell’ Europa: religione, cultura, arte, senso della vita, tolleranza; ma anche vecchiaia, morte, odio fanatico, violenza irrazionale…

La conversazione con un pope ortodosso, ai piedi del Partenone, o il dialogo semplice con un pescatore marsigliese, la cena in cui si conversa in cinque lingue del divino e dell’umano, la visita a Santa Sofia (chiesa cattolica, chiesa ortodossa, moschea, e ora museo) si trasformano in cinema puro e indimenticabile. Travolgente bellezza di una coproduzione che esprime l’ampiezza di prospettive del produttore di Lisbona, Paulo Branco. Il bellissimo titolo parla della predilezione di Oliveira per i particolari allusivi, del suo amore agli attori, dell’amabile e intelligente semplicità di un anziano che impartisce le sue lezioni con parole seducenti, rese in immagini. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Luther. Ribelle, genio, liberatore

5/06/2004. Regia: Eric Till. Sceneggiatura: Bart Gavigan, Camille Thomasson. Interpreti: Joseph Fiennes (Lutero), Peter Ustinov (Friedrich il saggio), Bruno Ganz (padre Johann). 121 min. Germania 2003. Censura USA: PG –13. Giovani.

Il giovane Martin Luther è un religioso fervente anche se interiormente tormentato da un forte senso del peccato. Nel 1517, sconvolto dalla corruzione della Chiesa e dallo scandalo della vendita delle indulgenze, pubblica le famose 95 tesi. È l’inizio di una battaglia che lo contrapporrà ai prelati di Roma, in un crescendo di coinvolgimento politico. Fino alla proclamazione di Augusta che segna la sua vittoria.

Potrebbe forse sembrare eccessivo definire questo film un’opera di apologetica della Riforma protestante, potrebbe sembrare eccessivo, ma è difficile nutrire dubbi sulle intenzioni dei produttori di questa biografia più che romanzata di Martin Lutero (tra i quali, non a caso, figura anche il Thrivel Financial for Lutherans). Attraverso una fastosa ricostruzione storica e una messa in scena drammaticamente molto efficace, infatti, la figura di Lutero emerge come quella di un grande eroe del pensiero, un puro in un mondo di corrotti, un uomo capace di cambiare il mondo grazie ad una visione nuova del Cristianesimo (“one man had a vision that changed the world” recita il trailer originale).

Il riformatore ha l’aspetto giovanile e cool del Joseph Fiennes di Shakespeare in Love (così non c’è da stupirsi, quando lo sorprendiamo a mordicchiare la sua penna d’oca, incerto su un passo sulla traduzione tedesca della Bibbia) e appare fin dall’inizio lacerato tra il senso dell’incapacità umana di superare il peccato e mosso dal desiderio di una religione basata sull’amore e sulla misericordia anziché su un’impossibile richiesta di perfezione, che sfocia spesso nella superstizione. Ciò che dà il via al suo percorso drammatico è il pellegrinaggio a Roma, che gli fa scoprire la corruzione della Chiesa, cui segue lo scontro con il domenicano Johann Tetzel, incaricato della vendita delle indulgenze per il finanziamento della basilica di San Pietro. Anche i suoi avversari della prima ora, i colleghi dell’università e, soprattutto, il principe elettore Federico di Sassonia, vengono vinti dalla potenza dell’entusiasmo di Lutero e persino il tentativo di processarlo da parte dei prelati cattolici fallisce di fronte alla forza disarmate delle sue argomentazioni. Lutero supera la crisi di fronte alla tragica repressione armata della rivolta di contadini grazie all’amore di una ex suora, Caterina von Bora, e la proclamazione del cuius regio eius religio imposta a Carlo V dalla coraggiosa resistenza dei principi tedeschi segna l’inizio di una nuova era di libertà.

Questo finale in stile L’attimo fuggente (anche se i principi non salgono sui banchi ma offrono la loro testa in difesa della Riforma), è estremamente esemplificativo del modo estremamente abile con cui la pellicola manipola gli eventi storici, trasformando in una grande vittoria della libertà religiosa l’affermazione del principio del cuius regio eius religio proclamato con la pace di Augusta, quando invece esso fu soprattutto un affermazione del primato della forza della politica e delle armi su quella della Fede, il primo passo verso l’indipendenza dei principi tedeschi dall’imperatore Carlo V. Un discorso analogo si potrebbe fare per la fin troppo frettolosa liquidazione dell’assenso dato da Lutero alla feroce repressione da parte dei principi suoi sostenitori delle rivolte contadine che la sua stessa predicazione aveva provocato. Meno grave, da questo punto di vista, anche se talvolta imbarazzante (“tieni la teologia fuori dal nostro letto”?!), è l’inserimento decisamente pretestuoso dell’elemento romantico della storia d’amore con Caterina von Bora, che serve a completare il ritratto da eroe romantico del protagonista.

Tipica di una certa incomprensione del cinema contemporaneo per la specificità della questione religiosa, e non solo di questa pellicola, è la riduzione della “rivoluzione luterana” ad un conflitto etico-morale oppure a dramma psicologico (in alcune sequenze le crisi di Lutero sembrano i deliri di un malato di mente e la soluzione proposta dal suo padre spirituale una specie di mantra più che una dichiarazione di fede). Una questione teologica di fondamentale importanza per la Riforma quale quella della presenza reale di Cristo nell’eucaristia, poi, è solo accennata all’inizio del film e poi totalmente dimenticata, con il risultato di ridurre la riforma luterana ad un rinnovamento etico del Cristianesimo (quale fu poi operato anche in seno alla Riforma cattolica) e trascurando lo spessore teologico del conflitto che oppose Lutero e gli altri riformatori a Roma. Laura Cotta Ramosino.

Elementi problematici per la visione: nessuno, ma per la complessità delle tematiche storiche affrontate il film è più adatto ai ragazzi di età superiore ai 12/14 anni.

(La recensione è tratta dal libro "Film di valore" di prossima pubblicazione presso le edizioni ARES, a cura di A. Fumagalli e L. Cotta Ramosino). Per gentile concessione di www.familycinematv.it.

Honey

5/06/2004. Regista: Bille Woodruff. Sceneggiatura: Alonzo Brown, Kim Watson . Interpreti: Jessica Alba, Lil’ Romeo, Mekhi Phifer, David Moscow, Zachary Bryant, Joy Bryant. 94 min. USA. 2003. Giovani-adulti.

Musical di ambiente proletario, modello Flashdance. Honey è una ragazza caparbia, decisa a diventare ballerina. Quando finalmente tale sogno sembra sul punto di realizzarsi, capisce cosa desidera veramente della vita. Michele Llano.

Pubblico: giovani-adulti. Contenuti specifici: V, S, D, F. Qualità: ** (MUNDO CRISTIANO)

21 grammi (21 grams)

5/06/2004. Regia: Alejandro González Iñárritu. Sceneggiatura: Gulliermo Arriga, Alejandro González Iñarritu. Interpreti: Sean Penn, Naomi Watts, Benicio del Toro, Charlotte Gainsbourg, Melissa Leo, Clea Du Vall, Danny Huston, Carly Nahon. 124 min. USA. 2003. Adulti.

Il limite tra vita e morte sembra segnato dal peso di 21 grammi, il confine tra un corpo animato ed un cadavere. Con tale titolo evocativo, il messicano Alejandro González Iñárritu (Amores perros) parla della fragilità dell’esistenza, dei tenui fili del divenire terreno, che pensiamo di poter controllare, ma spesso si imbrogliano con facilità.

Jack Jordan, reo confesso, è appena uscito da quel carcere in cui ha scoperto la fede, da cristiano evangelico. Convinto che “Gesù ti ama”, desidera sinceramente andare avanti insieme alla famiglia. Ma le difficoltà per trovar aumentano dopo un incidente che si rivela mortale, per il marito e le figliolette della fino allora felice Cristina Peck. La trama include Paul Rivers, malato cardiaco, bisognoso di trapianto, che riceve il cuore dal defunto marito di Cristina.

Il regista racconta, utilizzando una complessa sturttura narrativa, dai fili sparsi che finiscono per collegarsi miracolosamente. González Iñárritu parla, con gravità e senso fatalista, del destino che rovina i nostri piani. Si sforza di descrivere diverse situazioni famigliari, sfuggendo luoghi comuni. Parla dell’infelice matrimonio di Paul, che naviga tra menzogne e mezze verità, di un aborto della moglie, Mary, di cui era all’oscuro; delle difficoltà del “ricominciare di nuovo” di Jack, nonché dello scetticismo di sua moglie, circa i suoi buoni desideri; e di una vita felice, quella di Cristina, che finisce nella disperazione, nella droga e nei desideri di rivalsa. Ogni fotogramma traspira rabbia e fatalità, amarezza e nichilismo. Radi e fuggenti, i momenti lieti del film. Il dolore appare senza senso: se Dio esistesse, non avrebbe permesso tutto ciò, pensa il povero Jack. La catarsi offerta dai personaggi è limitata.

Il regista messicano gira il film in inglese, con stile realistico e un po’ caotico, quasi a rappresentare la vita stessa, ostentandone la durezza, ricorrendo ad un brioso montaggio. È lavoro di grande efficacia, con tre attori straordinari: Sean Penn, Naomi Watts e Benicio del Toro, assai credibili nel narrare la frustrazione dei personaggi. José María Aresté. ACEPRENSA

Pubblico: Adulti. Contenuti: V+, X, D+, F Qualità: **** (MUNDO CRISTIANO)

Kill Bill volume 2

5/06/2004. Regia: Quentin Tarantino. Sceneggiatura: Quentin Tarantino Interpreti: Uma Thurman (la sposa), David Corradine (Bill), Daryl Hannah (Elle), Michael Madsen (Budd). 94 min. USA. 2004. Censura USA: Restricted. Adulti.

Sono passati più di cent'anni dalla prima proiezione dei fratelli Lumière e non sono pochi i registi che sono cresciuti totalmente imbevuti di cultura cinematografica, non mancando mai di riferirsi, nelle loro opere, ai loro autori preferiti. Questin Tarantino è un caso a parte. La sua passione cinefila assume toni ossessivi. In Kill Bill Volume 2 sono evidenti i richiami a Il buono, il brutto , il cattivo (1966) di Sergio Leone, Il Postino Suona Sempre due Volte (quello con Lana Turner del '46), Non aprite quella porta (1974) , tutto il cinema di Hong Kong, le gangster story di serie B e tanti altri ancora. La sua costruzione riesce comunque ad essere originale ma é come se, fin da bambino, avesse imparato ad esprimersi unicamente attraverso parole assimilate durante una indigestione pantagruelica di film. I suoi personaggi non hanno profondità, non certo per imperfezione della sceneggiatura ma perché sono caratterizzati come degli eroi da fumetto. Il volto di Uma Thurman (la sposa): una maschera di fango e di sangue; la glaciale Daryl Hannah (Elle) con la banda nera sull'occhio ed i biondi capelli al vento; il controllato David Corradine (Bill), pronto a colpire con precisione. Sono tutti personaggi che si imprimono nella mente dello spettatore. La capacità di Quentin di costruire sequenze è eccezionale; pur essendo la saga di Kill Bill un film di genere, la storia non è semplice collante in attesa del prossimo combattimento ma eccelle invece proprio nel costruire l'atmosfera che prelude allo scontro. Elle (Daryl Hannah ) è andata a trovare Budd (Michael Madsen nella sua roulotte. Ha portato una valigia piena di contanti, necessari per comprare una spada imbattibile che Budd è in grado di vendergli.. Parlano tranquillamente come se si trattasse di una visita di cortesia; Bubb si mette persino a preparare un cocktail di frutta. L'atmosfera è troppo calma. Qualcosa sta per succedere. La cinepresa riprende i dettagli del frullatore che si avvia, che si spegne, del cocktail che viene versato nei bicchieri. Perché questi dettagli? Da dove scatterà l'imprevisto? Si domanda lo spettatore. Se ci trovassimo all'interno della logica ferrea di un film di Alfred Hitchcock , non avremmo dubbi: se viene inquadrato un particolare, sicuramente questo servirà al racconto. Ma Quentin gioca con lo spettatore, si diverte a sviarlo. Poi la sorpresa arriva, ma non da dove ce la potevamo immaginare.. Anche nella parte finale, quando "la sposa" e Bill scoprono di essere genitori di una deliziosa bambina e sono tranquillamente seduti nel salotto a prendere un drink come qualsiai famiglia borghese, noi temiamo che non ci sarà concesso alcun lieto fine.

Non ci sono buoni o cattivi in questo film, ma tutti sono killer che provano compiacimento nel rischio e nell'uccidere. Perfino la piccola figlia della sposa, (in questa famiglia Addams volta in drammatico) promette bene, uccidendo un pesciolino rosso per puro dispetto. Tarantino ci sta inviando un messaggio cinico, di completa sfiducia nella bontà 'umana?. Non lo credo. Ci sta propinando un elogio della vendetta negando la categoria del perdono? Niente di più avulso dai suoi interessi. Tarantino non è immorale nel senso che non ha nessuna filosofia da trasmetterci sulla decadenza del genere umano come invece accade, ad esempio, ne Le invasioni barbariche (2003); la sua opera è fuori da ogni riferimento alla realtà, è un cinema che si nutre di cinema. E' invece immorale perché è diseducativo, proprio quando ci trasporta in un mondo che non c'è ed in questo mondo gioca con la violenza attingendo la vis ludica dai nostri istinti più nascosti, come quella bambina che schiaccia il pesciolino rosso che si dimena fuori dall'acqua.

Valori/Disvalori: La violenza è un piacevole spettacolo fine a sé stesso

Se suggerisce la visione a partire da Adulti: Un videogame su pellicola, basato sul compiacimento per i combattimenti, le morti crudeli e le gravi mutilazioni. Diseducativo per i minori.

Giudizio Tecnico ****: Un regista imbevuto di cultura cinematografica che sa fare cinema.

Franco Olearo. Per gentile concessione di www.familycinematv.it.