Shrek 2

18/12/2004. Regia: Andrew Adamson. Sceneggiatura: J. David Stem, Joe Stillman, David N. Weiss. Cartoni Animati. 80 m. USA. 2004. Giovani.

La nuova avventura dei personaggi creati dallo scomparso William Steig ha dato vita al film che, nel genere cartoons, ha stabilito il nuovo record assoluto di incassi. Racconta le peripezie dell’orco Shrek e della principessa Fiona, sposini novelli, che vengono invitati dai genitori di lei a visitare il castello avito. In compagnia dell’insopportabile Asino, li vedremo attraversare il regno di Molto, Molto Lontano, dove dovranno superare le losche trame di un’intrigante fata –madre del vanitoso Principe Incantatore. Inoltre, ci sarà l’incontro con quell’attaccabrighe del Gatto con gli Stivali, e infine il grave conflitto, da loro provocato, nella propria famiglia reale e nella frivola società locale.

Eccellente l’idea di centrare la trama a partire dai “genitori della sposa”. Nonostante le numerose e indovinate trovate umoristiche, emerge un eccesso di battute e allusioni salaci, specie in materia sessuale, decisamente triviali. Inoltre, anche se efficaci, alcune parodie esibite dal film risultano ripetitive, mirando al facile effetto. Tuttavia, l’insieme si salva perché la critica ironica sulla società appare comunque intelligente e, per di più, il film termina con una rinnovata esaltazione della famiglia e dell’amicizia.

Miglior valutazione spetta alla risoluzione formale del film, che offre sensibili progressi nell’animazione digitale rispetto a Shrek 1, sia negli sfondi, che nella mimica. Non siamo ai livelli d’eccellenza esibiti in Cercando Nemo, e in altre produzioni Pixar, ma il film offre sequenze di sicuro effetto, ambientate con immaginazione e originalità e permeate da un eccellente senso narrativo. Inoltre, la splendida colonna sonora offre numerose canzoni di qualità.

Pertanto, Shrek 2 lascia un sapore agrodolce: vanta numerosi aspetti positivi, dal punto di vista formale e narrativo (splendido, per esempio, il nuovo personaggio del Gatto con gli Stivali), ma cede, nel contempo, alla tentazione di conquistarsi il pubblico adulto con mezzucci di bassa lega, corrompendo la natura di quella che spaccia per una fiaba di fate, alla quale Shrek 1 era rimasto, invece, rigorosamente fedele . Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: S, D, F. Qualità tecniche: *** (MUNDO CRISTIANO)

Il mistero dei Templari (National treasure)

18/12/2004. Regista: Jun Turteltaub. Sceneggiatura: Ted Elliot, Terry Rossio, Mariane Wibberley, Cormac Wibberley. Interpreti: Nicolas Cage, Harvey Keitel, Jon Voight, Diane Kruger, Sean Bean, Justin Bartha, Cristopher Plummer. 100 min. USA. 2004. Tutti.

L’archeologo Ben Gates (Nicolas Cage) appartiene ad una famiglia che da diverse generazioni cerca un favoloso tesoro legato ad un gruppo di massoni, firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti. Si ipotizza che George Washington, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin abbiano originariamente nascosto quel tesoro, per finanziare la Guerra d’Indipendenza. Per ritrovarlo, bisogna scoprire un codice segreto incluso nella Costituzione, nonché una mappa che potrebbe trovarsi sul retro della pergamena originale della Dichiarazione d’Indipendenza.

Questo film d’avventura, prodotto da Jerry Bruckheimer (La maledizione della prima luna, King Arthur), ha ottenuto il primo posto nelle sale da cinema degli Stati Uniti, ma grazie all’attuale penuria di film destinati alla famiglia, nonché al successo popolare garantito da trame che uniscono avventura, storia, finzione tecnologica, teorie misteriche-esoteriche ad un esile rapporto con la verità. Se non bastasse, c’è anche un tesoro da ritrovare.

Benché la formula non sia nuova -si pensi alla fortunata serie di Indiana Jones- il film dimostra di reggere abbastanza bene, malgrado la scarsa personalità del regista ed i limiti di un copione, talvolta in modo esasperante, elementare. Il riferimento iniziale ai Templari è semplicemente esilarante. Si tratta di cinema leggero, del genere “visto e dimenticato”, d’intrattenimento famigliare. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Melinda e Melinda

18/12/2004. Regista: Woody Allen. Sceneggiatura: Woody Allen. Interpreti: Will Ferrell, Vinessa Shaw, Amanda Peet, Chiwetel Ejiofor, Radha Mitchell, Cloë Sevigny. 90 m. USA. 2004. Adulti.

Con la puntualità con cui arriva l’autunno della carriera, ecco il film di Woody Allen. Quasi seguendo un rito ancestrale, ritroviamo negli stessi titoli di coda, nel solito Jazz di New Orleans, nella stessa durata di 90 minuti, nel produttore di sempre, e così via, le tematiche caratteristiche e le ossessioni ricorrenti del cineasta di New York. Allen affronta nel suo ultimo film il relativismo emergente dalla produzione letteraria, riflesso speculare di un relativismo epistemologico diffuso. Uno stesso fatto può essere raccontato in un’ottica che privilegia il tragico, o in un'altra che esalta il lato comico. Entrambi gli ingredienti si ritrovano nella vita, ma se il prevalere di una prospettiva può portare al pessimismo, l’altra finisce per incorrere nel cinismo, ultimo atteggiamento assunto nella vita reale da Woody Allen.

Alcuni amici scrittori si sono dati appuntamento per cena. Uno dei commensali racconta una breve storia che ha per protagonista una donna senza radici, di nome Melinda. Uno degli scrittori ne trarrà una lettura tragica ed esistenziale; un altro, invece, la imposterà sui binari della commedia. Il film, da questo momento, procede secondo un montaggio parallelo, presentando alternativamente due diversi modi di trattare l’argomento, a prima vista inconciliabili.

Radha Mitchell, in una sfida interpretativa assai impegnativa, impersona le due Melinda, quella divertente e quella depressa. Incuriosisce la diversa messa in scena con cui ciascun episodio del racconto viene trattato, secondo opposte angolature. Tra gli attori, emerge la bellezza di Amanda Peet e la vis comica di Will Ferrell. Vediamo riproporsi, quasi al completo, il cast dell’ultima opera di Louis Malle, Vanya sulla 42° strada. Senza raggiungere il miglior Allen, il film appare un‘opera accettabile, ben costruita ed amena, ma intrisa -soprattutto nel finale- di un amaro nichilismo che riflette la decadenza di chi, in altri tempi, -da regista- ha avuto momenti migliori. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: S, D+, F. Qualità tecniche: ** (MUNDO CRISTIANO)

The Polar Express

4/12/2004. Regia: Robert Zemeckis. Sceneggiatura: Robert Zemeckis, William Broyles Jr. Interpreti: Tom Hanks, Leslie Harter Zemeckis, Eddie Deezen, Nona M. Gayer, Peter Scolari. 100 m.USA. 2004. Tutti

La Warner Bros ha prodotto un film natalizio di animazione digitale, che tuttavia negli Stati Uniti ha deluso le attese di successo economico. La trama ricalca un popolare romanzo di Chris Van Allsburg. Ne è protagonista Josh, un ragazzino che dubita di Santa Claus. Per questo, la notte di Natale si ritrova passeggero di un misterioso treno diretto al Polo Nord, dove dovrebbe trovarsi proprio la città di Babbo Natale. Gli farà da guida il conducente del treno, doppiato nella versione originale da Tom Hanks, che interpreta anche altri tre personaggi.

Stavolta, Robert Zemeckis -che aveva integrato animazione e immagini reali in Chi ha incastrato Roger Rabbit- ha prima girato il film a partire dalle immagini reali, per poi farlo trasformare dagli specialisti in produzione tridimensionale in soli cartoni animati. I puristi storceranno il naso di fronte a questa scelta di realismo eccessivo, che aliena i cartoni animati dal proprio alveo genetico: il genere comico. In ogni caso, il film riporta la Warner nell’agone dei film di animazione, dopo lo scarso successo dei precedenti cartoni animati bidimensionali: Space Jam, Il gigante di ferro, Looney Tunes back in action.

Come prevedibile, il meglio del film emerge da scene d’azione davvero emozionanti, proprio perché ideate per proiezioni in formato IMAX. Ne escono esaltate le grandi potenzialità profuse dalle nuove tecniche d’animazione digitale. Assai più discutibili, invece, i rudimentali movimenti e la gestualità innaturale di personaggi che avrebbero dovuto essere rappresentati in ben altro modo. Comunque sia, a far acqua resta proprio il copione. Convenzionale, prevedibile, drammaticamente superficiale, propina una visione del Natale priva, di fatto, di un qualsiasi riferimento religioso. L’elogio della solidarietà e dell’integrazione razziale e sociale vi è proposto con sorprendente stanchezza emotiva. Soltanto nei personaggi più caricaturali ed insoliti -l’angelo mendicante e i due macchinisti maldestri- si intuisce come ben altre sarebbero state le potenzialità della storia, se svolta in modo meno sdolcinato, con humour più incisivo e coraggioso. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Alien vs. Predator

4/12/2004. Regista: Paul W.S. Anderson. Sceneggiatura: Paul W.S. Anderson. Interpreti: Sanaa Lathan, Raoul Bova, Lance Henriksen, Ewen Bremner, Colin Salmon. 100 min. USA. 2004. Giovani.

Il multimiliardario Charles Bishop Weyland (Lance Henriksen) organizza una spedizione scientifica per indagare su di un insolito aumento di temperatura su di un’isola dell’Antartide, rivelato da uno dei suoi satelliti. Tale fenomeno consente di arrivare ad un’antichissima piramide azteca sepolta a 600 metri sotto una calotta di ghiaccio. La squadra troverà conferma di un culto antichissimo a misteriose creature, dedite a strane battute di caccia rituali… Ma sta proprio per iniziarne una! Weyland e la sua squadra avranno l’opportunità di parteciparvi, ospiti di cuccioli di alieni.

Si potrà criticare la mancanza di originalità della trama: indugia su filoni già battuti ed è scarsa di contenuto. Verissimo. Lo spettatore sa che gli alieni hanno sangue acido di color verde, e sono una sorta di lucertoloni molto prolifici con caratteristiche assai sgradevoli; e sa anche che i predatori sono dotati di visione infrarossa e visore laser triangolare. In ciò nulla di sorprendente. Nemmeno nei protagonisti della spedizione: personaggi piatti, destinati ad essere eliminati già dopo le battute iniziali della storia. Non si potrà accusare tuttavia la Fox di secondi fini. Il film è esattamente quello che ci si attende: un semplice passatempo che offre l’atteso scontro tra le più sanguinarie creature dello spazio, anticipato dalla prima esibizione della saga dei predatori, dove si ostenta un cranio di alieno.

Paul Anderson si sforza di svolgere il suo mestiere nel miglior modo possibile: assolve l’incarico con competenza e professionalità. Ne risulta un prodotto di consumo per pubblico di modeste pretese. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

2046

4/12/2004. Regista: Wong Kar-Wai. Sceneggiatura: Wang Kar-Wai. Interpreti: Tony Leung. Gong Li, Kimura Takuya, Faye Wong, Zhang Ziyi, Carina Lau, Chang Chen, Wang Sum, Siu Ping Lam, Maggie Cheung. 120 m. China-Francia-Germania. 2004. Adulti.

Si tratta dell’ottavo film del prestigioso regista cinese Wong Kar-Wai (Shangai, 1958), alquanto atteso dopo il successo di In the Mood for Love. 2046 non delude, ma trattandosi di variazione su tema, rispetto al precedente film, non c’è più la sorpresa.

Kar-Wai sembrerà anche ripetersi, ma ora coglie una diversa prospettiva narrativa: quella del giornalista-scrittore cinico, incallito fruitore di belle donne e allergico al senso del dovere. La forza stilistica di Kar-Wai è semplicemente travolgente. È capace di fermare il tempo creando pregevoli brani poetici, con l’aiuto della sua cinepresa, in sintonia con i lenti ritmi del “bolero”: i più adeguati alla scansione contemplativa. Peraltro, 2046 non riesce a fugare i dubbi e l’inquadramento riduzionista di un regista che pure intende affrontare il profondo mistero dell’amore umano. Il film si avvale della collaborazione di uno straordinario cast, impreziosito dalla fotografia di Christopher Doyle.

Questa accattivante e tormentata storia, in spazi stretti, con porte e scale che si alternano su muri consumati da travolgenti passioni, dopo tanti approcci superficiali e qualche amore nobile, misterioso e sfortunato, lascia intravedere una conclusione positiva. Si può infatti rileggerne la fase finale in chiave di elogio della fedeltà, di questa fedeltà pura, capace di redimere la solitudine che genera l’egoismo fashion. Peccato che, per strada, si smarrisca la linearità del messaggio e si prescinda dal pudore -l’incantevole pudore orientale- che tanto contribuiva alla strana e magnetica bellezza del precedente film. Non è da scartare una svolta commerciale in Kar-Wai (del resto, si è verificata per Zhang Yimou con La Foresta dei Pugnali che Volano) per accalappiare spettatori di modesta immaginazione: quelli che esigono che la cinepresa entri in camera da letto, con la stessa meticolosa pedanteria di un notaio. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Gli incredibili

27/11/2004. Regia: Brad Bird. Sceneggiatura: Brad Bird. Cartoni animati. Musica: Michael Giacchino. 115 m.USA. 2004. Tutti

Sulla scia dei successi di Toy Story 1 e 2, A Bug’s Life-Megaminimondo, Monsters&Co e Alla ricerca di Nemo, Pixar Animation prosegue con Gli Incredibili: 143 milioni di dollari incassati, nelle prime due settimane di visione negli Stati Uniti. Regista e sceneggiatore di turno è Brad Bird, prestigioso esponente del genere del film d’animazione, che anni fa ha diretto per la Warner Il gigante di ferro.

Il film narra le vicende di una famiglia di supereroi, particolarmente sensibili di fronte alla discriminazione sociale nei confronti dei propri simili. Riciclato in un’esistenza normale, come assicuratore, l’erculeo Mr. Incredibile non sopporta il suo esilio dall’eroicità. Così aiuta i clienti, uscendo talvolta di notte, in gran segreto, con un altro supereroe: per altruismo. Queste assenze mandano in bestia la moglie, Helen, donna animata di grande coraggio, che si sforza di dimenticare la sua condizione di Elasticgirl, in quanto soddisfatta dal ruolo di madre di tre figli. La figlia grande, Violet, è un’introversa adolescente, che ha il dono di diventare invisibile e di creare campi di forza. Il secondo, Dash, è un turbolento ragazzo che corre più veloce del vento. Infine, Jack Jack è un giocherellone, apparentemente privo di poteri speciali. L’apparizione di un misterioso super-malvagio costringerà la famiglia a rivedere i precedenti 15 anni di vita, trascorsi nella normalità.

Il film, prodigio di ritmo e progettazione, va decisamente oltre l’animazione digitale di personaggi umani, disegnati su profili caricaturali. Questo spiega come mai il film regga splendidamente sia nelle impressionanti sequenze d’azione, che nelle accattivanti scene di intimità famigliare. Tale collaudato mix lo eleva a capolavoro, se si appoggia, come avviene, su di un copione da manuale. Ne emerge un’attraente prospettiva dei rapporti famigliari, basati su di una sapiente miscela di affetto ed esigenza. Ne esce un’originale analisi sociale, molto critica verso il crescente disprezzo cui oggi risulta relegata l’eroicità morale, nonché diffidente verso un progresso scientifico privo di presupposti etici. Il film risulta perciò davvero coinvolgente, specialmente nell’appello alla responsabilità, quando arriva il momento di esercitare le proprie qualità. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

The manchurian candidate

27/11/2004. Regista: Jonathan Demme. Sceneggiatura: Daniel Pyne e Dean Georgaris. Interpreti: Denzel Washington, Meryl Streep, Liev Schreiber, Jon Voigth, Kimberly Elise, Bruno Ganz, Vera Farmiga. 140 min. USA. 2004. Giovani.

Denzel Washington interpreta il comandante Marco, veterano della Guerra del Golfo, che soffre periodici incubi a ricordo di un’imboscata, dove persero la vita due dei suoi uomini. Eroe di quel giorno fu il sergente Shaw, insignito di croce al merito, nonché attuale candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti. Sebbene per anni, Marco abbia tenuto conferenze, elogiando le gesta del compagno d’armi, gli incubi persistenti e l’incontro con un altro veterano del Kuwait lo inducono a rianalizzare quanto avvenne in quella notte del 1991. Se le sue paure sono fondate, ecco che gli Stati Uniti dovranno affrontare la più grande minaccia della propria storia.

Dopo una serie di flop, il regista di Il silenzio degli innocenti ci offre un film di qualità. Si tratta di un interessante remake di un capolavoro di Frankenheimer, dove Frank Sinatra interpretava il ruolo principale. Allora, la guerra era quella di Corea; e il nemico, i comunisti. Oggi sono le gigantesche multinazionali ad imporre i rispettivi candidati, con la pretesa di dirigere il destino dei popoli, manipolando la sensazione d’insicurezza, vera o presunta, scaturita dagli attentati dell’11 settembre 2001.

Connotazioni e parallelismi politici non devono far dimenticare la cosa essenziale: il film è stato girato con grande maestria. Le interpretazioni, particolarmente quella di Meryl Streep, sono eccellenti. L’unico dettaglio stonato è la fantasiosa manipolazione di condotte e personalità -nel 1962 si limitavano a semplici lavaggi di cervello- che trasformano la storia in thriller di fantascienza. Forse questo sfondo inverosimile è creato ad arte dagli autori onde evitare che si prenda sul serio, come profezia, la tesi principale del film: “È ormai prossimo l’avvento del primo vicepresidente USA fantoccio, manovrato da un’impresa privata”. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Les choristes

27/11/2004. Regista: Christophe Barratier. Sceneggiatura: Christophe Barratier. Interpreti: Gérard Jugnot, François Berléand, Kad Merad, Jean-Paul Bonnaire, Marie Bunel, Paul Chariéras, Carole Weiss. 95 m. Francia. 2004. Giovani.

Chitarrista prima di diventare cineasta, Christophe Barratier ha iniziato a lavorare per Jacques Perrin nel 1991. Con lui è stato delegato alla produzione di film come Microcosmos-Il popolo dell’erba, Himalaya o Il popolo migratore. Nel 2001 ha diretto il cortometraggio Les Tombales, da un romanzo di Maupassant. Ora, Barratier riscuote un sorprendente successo con Les choristes, primo film da regista, selezionato dalla Francia per concorrere all’Oscar, negli States, quale miglior film straniero.

Il copione nasce da un adattamento del film La Cage aux Rossignols, di Jean Dréville (1945). Narra la storia di Clément Mathieu, professore di musica disoccupato, che nel 1949 inizia a lavorare in un istituto di correzione per minori. Ben presto, Mathieu si scontrerà con i metodi repressivi del direttore dell’internato, Rachin, che tiene in pugno gli allievi, ricorrendo alle maniere forti. Mathieu proverà a guadagnarsi gli adolescenti, organizzando con loro un coro polifonico, che presto susciterà in tutta la classe un desiderio di riscatto. Chi trova più difficoltà ad integrarsi è Pierre, ragazzo introverso, intelligente e sensibile, che fuori si ostenta sprezzante e aggressivo.

Sulla scorta del lungo flash-back da un acclamato direttore d’orchestra, il film ha il sapore collaudato, agrodolce, dei classici film imperniati sull’analisi di una determinata professione, come Goodway, Mister Chips, di Sam Wood. Ne emerge la comune idealità dell’insegnamento, descritto più come iniziazione alla vita, piuttosto che semplice trasmissione di conoscenze. Nella fattispecie, occorre aggiungere i drammi dei ragazzini dell’istituto, che la società stessa sembra respingere verso un destino negativo. La musica offre nuove sfide, al professore e agli alunni, simili a quelle viste in film come Il maestro di musica, Tutte le mattine del mondo, o Professor Holland.

Come appare evidente, Les choristes non è un film originale, ma riesce ad integrare numerosi elementi interessanti, sviluppandoli in tono amabile e profondo, idoneo ad affrontare senza eccessive pretese, e senza indulgere nel fatalismo, tematiche spinose quali: la pederastia, le famiglie fallite, la delinquenza precoce. Il ricorso a splendidi attori, tra i quali svetta Gerárd Jugnot, che riesce a valorizzare molto bene il personaggio di Mathieu, professore di musica che sa essere affettuoso e, al contempo, esigente. Menzione speciale va anche all’eccezionale colonna sonora di Bruno Coulais, basata su raffinati cori polifonici -sacri e profani- molto ben interpretati da Les Petites Chanteurs de Saint-Marc e dal solista, Jean-Baptiste Maunier, che interpreta il sofferto Pierre, con espressiva interiorità. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

La tela dell'assassino (Twisted)


27/11/2004. Regista: Philip Kaufman. Sceneggiatura: Sarah Thorp. Interpreti: Ashley Judd, Andy Garcia, Samuel L. Jackson, David Strathairn, Russell Wong, Mark Pellegrino. 97 min. USA. 2004. Adulti.

Jessica Shepard è ispettrice di polizia, dalla vita solitaria, un po’ alcolizzata, violenta, sessualmente promiscua. Nel suo primo caso, alla sezione omicidi di San Francisco, ha a che fare con una crudele serial killer, che elimina sistematicamente gli uomini che hanno rapporti intimi con lei. Gradualmente, proprio la poliziotta finisce per diventare la principale sospetta dei crimini, fino al punto che, a sostenerla, rimangono solo il “capo” e quel collega di cui si sta innamorando. Lei stessa comincia a dubitare del proprio comportamento, soprattutto da quando ha allucinazioni da droga.

Unica novità di questo mediocre film noir è quella di presentare una donna, nel ruolo abitualmente assegnato al protagonista maschile. Per il resto, la storia è narrativamente confusa, imbrogliata nello sviluppo, molto sordida nel tono, specialmente nelle volgari sequenze sessuali e nei morbosi passaggi violenti. Emerge, in negativo, la mano del regista Philip Kaufman, incline sia ad una narrativa caotica, che all’erotismo. Basti pensare ad altri suoi film come Henry e June, o Quills-La penna dello scandalo. Perciò, La tela dell’assassino rimane appesa soltanto allo sforzo degli attori, specialmente Andy Garcia, mentre Ashley Judd e Samuel L. Jackson non sempre sono all’altezza. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V+, X+, D+, F. Qualità tecniche: ** (MUNDO CRISTIANO)

L'Esorcista: La genesi

27/11/2004. Regista: Reni Harlin. Sceneggiatura: Sarah Thorp. Interpreti: Stellan Skarsgard, James D'Arcy, Izabella Scorupco, Julian Wadham, Remy Sweeny. 114 min. USA. 2004. Adulti.

Vuol essere il seguito del film del 1973. Venticinque anni prima, padre Marrin, ossessionato dal ricordo delle violenze naziste, lascia l’Olanda per il Cairo e scopre nella cripta di una chiesa bizantina un demone, entrato nel corpo di un ragazzo.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V+, S, D+, F. Qualità tecniche: ** (MUNDO CRISTIANO)

Sky captain adn the world of tomorrow

20/11/2004. Regia: Kerry Conran. Sceneggiatura: Kerry Conran. Interpreti: Jude Law, Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie, Giovanni Ribisi. Durata: 88'. Gran Bretagna/Italia/USA. 2004. Genere: Fantascienza. Giovani.

1939. L'anno della Fiera Internazionale di New York e del film Il mago di Oz. La giornalista/fotoreporter Polly si accorge della sparizione di importanti scienziati tedeschi. Come se non bastasse, New York viene invasa da giganteschi robot radiocomandati. Polly riconosce che solo l'intrepido Sky Captain può risolvere l'arcano, anche se vorrebbe evitarlo perché nel passato sono stati fidanzati e tra loro c'è rimasta della ruggine....

Kerry Conran non è un regista di mestiere. E' innanzitutto un bravo disegnatore (tutto lo storyboard, i costumi dei protagonisti, i robot, le armi speciali sono stati ideati da lui), amante dei film in bianco e nero d'avventura e appassionato dei comic book americani. E' anche esperto di computer grafica; il primo sample del film (4 anni di lavoro per realizzare un dimostrativo di 6 minuti) è stato realizzato con gli strumenti di cui disponeva in casa. Infine l'incontro con il produttore John Avenet (a cui si è unito anche Aurelio De Laurentiis) e la decisione di attrezzare uno studio per riprese in blue-screen, con un centinaio di persone addette alle riprese e all'animazione dove attori in carne ed ossa hanno recitato nel "vuoto" davanti ad un fondale blu che è stato poi animato, in postproduzione, con scenari di fantascienza. Molto riuscita l'idea di adottare tonalità sfumate, con prevalenza del grigio seppia: in questo modo le riprese degli attori dal vero e gli scenari generati in computer grafica si sono perfettamente impastati in un'atmosfera di fanta-retrò.

La città di New York è vista come attraverso cartoline d'epoca (come quando ci viene rappresentato l'ingresso al Radio City Hall) o come la Gotham City di Batman; gli aerei futuristi ed i razzi spaziali sono quelli di Flash Gordon e di Rocketeer; le riprese sulle impervie cime dell'Himalaya sono praticamente identiche a quelle del bellissimo Orizzonte perduto (1937) di Frank Capra; l'attracco di un dirigibile Zeppelin all'Empire State Building rievoca la sequenza finale di King Kong (1933); una antenna radio che emette le sue onde è la stessa della sigla di apertura di tutti i film della RKO mentre Gwyneth Paltrow, con il suo cappello nero sulle ventitré rievoca le eroine del noir d'epoca.

E la storia? Penso che avete tutti letto abbastanza fumetti per sapere in anticipo che il mondo non verrà distrutto e che fra la intraprendente giornalista e l'intrepido capitano qualcosa di tenero nascerà...ma non abbastanza perché bisogna lasciar spazio ad una prossima puntata. Da questo punto di vista il film è esattamente quel che vuol essere, un film di genere dove lo spettatore ottiene quello che si aspetta; non è stata fatta nessuna operazione di attualizzazione: si pensi sopratutto a Spider-Man e a Spider-Man 2 dove l'ambientazione ricavata dai Comic Book è un pretesto per raccontare qualcosa di più profondo con sensibilità moderna.


Per questo motivo sarà interessante capire se il film sarà ben accolto dai giovani: il regista (che pure ha solo 37 anni) ha compiuto una operazione di pura nostalgia; nostalgia di quella aspettativa per il futuro che si era creata all'apertura della World' Fair di New York del 1939 (che si intitolava appunto "The World of Tomorrow"); nostalgia di storie lineari dove il bene trionfava sul male (più esattamente: dove il male era il male ed il bene era il bene) ed il protagonista maschile e quello femminile finivano per innamorarsi. Franco Olearo.
Per gentile concesione di FAMILYCINEMATV.

Valori/Disvalori Un piacevole divertimento senza malizia, ne doppi sensi

Si suggerisce ai genitori la visione a partire da:Pre-adolescenti. Per la violenza distruttiva dei robot. Una frase licenziosa.

Giudizio tecnico: ****. Opera di grande bellezza evocativa di un mondo retro-fantasy. Personaggi/eroi ben tratteggiati. Sceneggiatura semplice con venature ironiche.

Maria full of grace

20/11/2004. Regista: Joshua Marston. Sceneggiatura: Joshua Marston . Interpreti: Catalina Sandino Moreno, Yanny Paola Vega, Rodrigo Sánchez Bohorquez, Charles Albert Patiño. 101 min. USA-Colombia. 2004. Adulti.

Sotto un titolo ambiguo, Maria Full of Grace, il regista californiano Joshua Marston esordisce nel lungometraggio affrontando direttamente una delle piaghe più letali della nostra società: il narcotraffico. Ma invece di farlo da una prospettiva di genere hollywoodiano, per esempio come thriller, o ricorrendo ad un iperrealismo sgradevole e violento, Marston sceglie il dramma umano dei trafficanti. Concretamente, delle mulas, donne che per denaro accettano di portare nel loro stomaco capsule di cocaina o eroina nei voli da Bogotá a New York, rischiando la vita -nel peggiore dei casi- o la prigione -nel migliore-. Per questo, il regista sceglie una ragazza di diciassette anni, cattolica, rimasta incinta a seguito di una relazione con un ragazzo che non le vuol bene. La protagonista, per di più, vive in un ambiente famigliare che la umilia. Per questo, davanti all’offerta di ricevere cinquemila dollari per un viaggio di alcune ore, si lancia in un’avventura sconvolgente che le cambierà la vita.

Colpisce l’incoscienza della protagonista in rapporto alle conseguenze del traffico di stupefacenti. Lei non pensa mai ai giovani che moriranno per avere assunto le sostanze che lei sta trasportando. Per lei, l’unico crimine è quello di introdurre sostanze proibite e nient’altro. Un pregio del film è il forte timbro documentarista, che ci permette conoscere da vicino il penoso processo per ingerire le capsule di eroina, ed il fatale epilogo che ne segue, ove se ne rompa una nello stomaco di una persona. Questo realismo ci fa vedere l’altra faccia della medaglia: quando il trafficante diviene la patetica vittima del grande giro di droga.

Il film non scende mai a particolari disgustosi, limitandosi ad evocarne la realtà in modo allusivo. Questa scelta di buon gusto si salda ad un finale pieno di speranza, comprensione e positività, che in certo modo purifica la dignità ferita della protagonista. Il film ha vinto il Premio del Pubblico a Sundance 2004, e l’Orso d’Argento alla migliore attrice (Catalina Sandino Moreno) e il Premio Alfred Bauer a Berlino 2004. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, S, D, F Qualità tecniche: **** (MUNDO CRISTIANO)

Before sunset (prima del tramonto)

20/11/2004. Regista: Richard Linklater. Sceneggiatura: Richard Linklater, Julie Delpy, Ethan Hawke. Interpreti: Ethan Hawke, Julie Delpy. 100m. USA. 2004. Adulti.

Arriva il seguito di Prima dell’alba (Before Sunrise): stesso regista e cast d’attori. Continua la storia d’amore, con gli stessi protagonisti, nove anni dopo le vicende narrate nel film precedente. Nel film del 1995, si narra dell’incontro casuale di due sconosciuti che passano una notte insieme a Vienna, separandosi prima dell’alba. Il patto è di rivedersi sei mesi dopo. Ma non c’è stato alcun seguito. Adesso, in Before Sunset (Prima del tramonto), dello stesso regista, la coppia si ritrova casualmente a Parigi. Qui potranno spiegarsi il perché dell’appuntamento tradito, che cosa hanno fatto delle loro vite in questi anni e, in definitiva, se continuano a provare una qualche attrazione l’uno per l’altro. Però, stavolta hanno soltanto due ore a disposizione, per stare insieme.

Il film ha lo stesso ritmo lento, dialogato e intimistico, un po’ minimalista, sulla scorta del precedente. In realtà non succede niente, semplicemente assistiamo ad un riannodarsi delle vicende di due personaggi che traspirano quanto si portano dentro: paure, insuccessi, sogni… La conversazione -su cui si impernia la maggior parte del film- appare troppo insistente sul sesso, rendendo quasi infantile quello che appariva un incontro tra persone mature. La realtà è che Jesse e Celine non sono maturati molto, in questi anni, sintomo dello squilibrio tipico del trentenne occidentale.

L’interpretazione degli attori è brillante, così come lo stile generale della scenografia: le canzoni sono interpretate e scritte da Julie Delpy, ed è piacevole percorrere con i protagonisti le strade di Parigi. Ma tutto qui: si tratta di un film modesto. I contenuti sono scarsi, come la lettura antropologica istintiva e sentimentale, solo relativamente gradevole, anche se talvolta condotta con una certa eleganza. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: S, D+, F Qualità tecniche: ** (MUNDO CRISTIANO)

El Cid: la leggenda

20/11/2004. Regista: José Pozo. Sceneggiatura: José Pozo. Cartoni animati. 90 min. Spagna. 2003. Giovani.

Questa versione dell’epopea dell’eroe castigliano del secolo XI è una produzione ambiziosa, estroversa, ma non totalmente riuscita. Sembra un copione privo di ritmo narrativo, drammaticamente povero di sostanza -abbondano i luoghi comuni- e assai libero come interpretazione storica. Inoltre, l’eccessiva somiglianza di diversi personaggi tra loro, la non eccellente integrazione di disegni realisti e comici, l’astratto estetismo degli scenari di fondo e una gamma cromatica alquanto ridotta limitano il suo target ad un pubblico infantile. José Pozo trascura le regole del cinema di animazione, per la sua ambizione ad essere originale a tutti i costi e di differenziarsi dallo stile Disney. Se però lo si riduce a film d’avventure per un pubblico di adolescenti, allora il risultato può anche riuscire soddisfacente. In tal senso, offre un’animazione originale e diverse sequenze di battaglie davvero spettacolari. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V. Qualità tecniche: *** (MUNDO CRISTIANO)

L'Inventore di favole (Shattered glass)

13/11/2004. Regista: Bill Ray. Sceneggiatura: Bill Ray. Interpreti: Hayden Christensen, Peter Sarsgaard, Chloë Sevigny, Rosario Dawson, Hank Azaria. 99 min. USA-Canada 2003. Giovani.

Tra il 1995 e il 1998, il giovane Stephen Glass si afferma quale prestigioso giornalista grazie ai 41 articoli pubblicati sull’autorevole rivista di analisi The New Republic. Ma un giorno, una pubblicazione su Internet rende pubblica la falsità di un servizio di Glass su un congresso di hackers. L’accusa ricade sul nuovo direttore della rivista, Chuck Lane, onesto e metodico giovane redattore, che ha appena rilevato la direzione di The New Republic da un giornalista carismatico, contro l’opinione di quasi tutto il corpo di redazione. L’accusa che Glass si era inventato totalmente o parzialmente 27 dei suoi 41 articoli, alla fine risulterà fondata.

Dopo aver scritto alcuni film discreti, come Il colore della notte (Color of Nigth) o Sotto corte marziale (Hart’s war), Billy Ray esordisce da regista in Shattered Glass. Si tratta di un interessante dramma che denuncia il sensazionalismo giornalistico, le miserie della morale del “successo a qualsiasi prezzo” e la vacuità della cultura delle apparenze. Per contrasto un elogio al lavoro ben fatto, nonché alla maturità nei rapporti professionali e personali. Questa profondità drammatica ed etica della sceneggiatura giova all’efficacia della stessa.

Un capitolo a parte merita il cast. Il prestigioso Hayden Christensen intriga lo spettatore, mantenendo a lungo celata l’identità del suo scadente personaggio. Da parte loro, Hank Azaria, Chloë Sevigny e Melanie Lynskey appaiono spesso brillanti interpreti nelle brevi comparse. Il migliore è Peter Sarsgaard, sensazionale nel ruolo del giovane direttore. La sua interpretazione gli vale la nomination al Globo D’Oro 2003, quale migliore attore. La sua personalità e caratterizzazione riassumono coerentemente la profonda riflessione morale che il film propone sulla bellezza della verità e la deformità della menzogna. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Cosi fan tutti (Comme une image)

13/11/2004. Regista: Agnès Jaoui. Sceneggiatura: Agnès Jaoui. Interpreti: Marilou Berry, Agnès Jaoui, Jena-Pierre Bacri, Laurent Grévill, Virginie Desarnauts. 110 min. Francia. 2004. Adulti.

Agnès Jaoui è una delle voci più interessanti del cinema europeo attuale. La sua crescita di attrice si è perfezionata lavorando in coppia, da anni, con un altro attore, Jean-Pierre Bacri. Insieme hanno scritto film di valore, come Smoking e No smoking, e On connait la chanson, entrambi diretti da Alain Resnais. Nel 1999, Jaoui e Bacri sono gli autori della commedia di costume Il gusto degli altri (Le goût des autres), che segna il brillante debutto di lei alla regia, con vari riconoscimenti. Questa brillante carriera si impenna ancor più in Cosi fan tutti (Comme une image), premio alla miglior sceneggiatura al Festival di Cannes 2004. Si tratta di una nuova dissezione, corale e tragicomica, del mondo attuale, stile Woody Allen, ma con una profondità e buon umore decisamente superiori a quelli del regista americano.

Lolita è un’intelligente e sensibile studentessa parigina, traumatizzata dalla sua obesità e dalla mancanza d’interesse verso di lei da parte del padre, il famoso romanziere Etienne Cassard, egoista e frivolo. La vita di questo “brutto anatroccolo” si arricchisce di una nuova inattesa dimensione, quando Lolita convince la sua professoressa di canto, Sylvia, a dirigere una corale amatoriale che sta preparando un recital in una chiesa di paese. L’iniziativa aiuta anche Sylvia a superare la propria insicurezza e quella del marito, Pierre, scrittore in crisi.

Agnès Jaoui ha definito il suo film come “una storia di esseri umani che sanno perfettamente cosa dovrebbero fare al posto degli altri, ma non se la cavano altrettanto bene quando tocca a loro vivere la propria vita”. Da questo punto di vista, la regista francese ha creato una galleria di personaggi, vicini e profondi, attraverso le contraddizioni dei quali indaga temi molto suggestivi, come i rapporti di potere nel mondo attuale -inclusi anche nel rapporto genitori-figli- la tirannia dell’immagine e della bellezza fisica, la sete di amore e di riconoscimento, il valore della musica classica, baluardo di spiritualità in un mondo materializzato.

Jaoui espone tutto ciò in tono leggero, ma sottile e non conformista; un tono comprensivo con tutti i personaggi, ma esigente nei giudizi morali sui loro atteggiamenti. Il film ne guadagna in profondità e coinvolgimento, impreziosito dalla brillantezza dei dialoghi, dalla qualità delle interpretazioni e dalla freschezza della messa in scena. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

De-lovely

13/11/2004. Regista: Irwin Winkler. Sceneggiatura: Jay Cocks. Interpreti: Kevin Kline, Asley Judd, Jonathan Pryce. 125 min. USA. 2004. Adulti.

Cole Porter (1891-1964), attende la morte in solitudine, suonando al pianoforte una melodia melanconica e famigliare, nel suo appartamento di New York. Il fantasma di un vecchio collaboratore porta Cole in un teatro vuoto dove si sta rappresentando, su palcoscenico, la vita dello stesso Cole. Tutte le figure chiave del suo passato appaiono sulla scena per rappresentare di nuovo la sua vita: amori, amici,colleghi, e la persona più importante: la moglieLinda.

Diretta da Irwin Winkler (New York, 1931), veterano produttore e regista di film premiati da 12 Oscars e 45 nomination, De-Lovely ha un copione molto elaborato, su iniziativa di Jay Cocks (Gangs of New York, L’età dell’innocenza), che mette insieme vita ed opera del compositore di indimenticabili canzoni immortalate dal cinema, come Your Are the Top, Night and Day, Begin the Beguine.

L’eccellente scenografia, i costumi fastosi, la delicata fotografia di Pierce-Robberts (Quel che resta del giorno, Casa Howard), nonché la presenza di stelle del mondo della canzone (Robbie Williams, Elvis Costello, Diana Krall, Alanis Morissette, Sheryl Crow, Natalie Cole, Vivian Green, Lara Fabian, Lemar, ecc.), che interpretano con molto talento le belle canzoni di Porter, arricchiscono il film di momenti musicali veramente memorabili.

Non così entusiasmante l’approccio alla vita di Porter, nella quale tutto o quasi tutto si riduce a frivola promiscuità sessuale, con insistiti riferimenti all’omosessualità dell’egocentrico protagonista. Winkler e il suo sceneggiatore trattano la questione con sguardo impassibile, senza nobilitare i rapporti omosessuali, né censurare il comportamento del compositore. Ma battere su questo tasto, finisce per compromettere in maniera irreparabile il film. Kline e Judd dimostrano eccellente talento interpretativo. Alberto Fijo, ACEPRENSA.

The village

30/10/2004. Regista: M. Nigth Shyamalan. Sceneggiatura: M. Nigth Shyamalan. Interpreti: Bryce Dallas Howard, Joaquin Phoenix, Adrien Brody, William Hurt, Sigourney Weaver, Brendan Gleeson, Cherry Jones. 108 min. USA 2004. Giovani.

“Ripetersi o non ripetersi? Questo è il dilemma!”. M. Nigth Shyamalan, regista de Il sesto senso, scrive, dirige e produce questo film, con grande chiarezza di idee: respinge al mittente le critiche che lo accusano di essere ripetitivo. Asserisce, infatti, di indugiare su di un genere molto popolare di film, quello di suspense, ma solo per affrontare questioni di rilievo, capaci di provocare lo spettatore. Inserisce nei film situazioni inattese e soprendenti, che fanno presa. Per questo, si consiglia di sperimentare la visione dei suoi film, senza troppe informazioni, limitandosi all’imprescindibile: è certo il miglior modo di fruirne.

Ci troviamo alla fine del XIX secolo. In un paesino isolato, circondato da un bosco, gli abitanti vivono in allegro cameratismo: tutti si conoscono e spesso condividono i pasti all’aperto. Sono governati da un gruppo di anziani, che risolvono i problemi della comunità. Vige l’accordo di non uscire mai dal paese, perché nel bosco abitano orribili creature, “da non nominare neppure”. Non varcare i limiti del villaggio: ecco la condizione per poter vivere in pace. In caso contrario…

Nuove sfide per Shyamalan, brillantemente superate. La principale: creare la sua prima protagonista femminile forte: la ragazza cieca, Ivy. Questo personaggio propone l’esistenza di diversi tipi di cecità; e conduce a una delicata storia d’amore che culmina nella scena del portico, girata da maestro. Ci sono anche altri amori, amori segreti non confessati. E segreti, segreti non comunicati. Perché la questione della trasparenza, mostrare le cose come sono, il parlar chiaro, è proprio il motivo conduttore del cineasta di origine hindu.

Se non bastasse, c’è la paura. Paura diversa dal terrore (anche se c’è un passaggio nel bosco, dove Ivy sembra “cappuccetto rosso”, di rara forza evocativa, capace di spaventare chiunque), e di una profondità ancora maggiore di quanto appaia sul momento. Si tratta della paura dell’oltre, un pericolo mai affrontato seriamente. Rimanere segregati nel paesino ha la sua contropartita: la rinuncia alle medicine e a tante altre cose buone, pur di evitare i mostri.

Coordinare questa storia non è stato banale. Per creare l’atmosfera adatta, la messa in scena è essenziale. Il regista gioca al meglio le sue chance: il suono e la musica, così importanti nel suo cinema; i movimenti della cinepresa, con un insolito uso dello zoom; le riprese artistiche del paese, una località invernale autentica, non ricostruita in studio… Infine, i personaggi e le trame, tutti di rilievo. Shyamalan offre un’ulteriore saggio della sua eccellente regia. Nel film ricorre ad un cast di gran classe, permettendosi di imitare l’Hitchcock di Psyco, quando fa sparire un attore nel bel mezzo della narrazione. Menzione speciale merita Bryce Dallas Howard (Ivy), figlia d’arte, che recita alla perfezione il suo ruolo. L’ha scoperta proprio Shyamalan sulla scena un’opera teatrale a Broadway. Ne è seguita l’immediata valorizzazione da parte di Lars von Trier, nel film Manderlay, in un un ruolo destinato, in origine, a Nicole Kidman.

José María Aresté. ACEPRENSA.

Se mi lasci ti cancello

30/10/2004. Regista: Michael Gondry. Sceneggiatura: Charlie Kaufman. Interpreti: Jim Carrey, Kate Winslet, Elijah Wood, Mark Ruffalo, Kirsten Dunst. 108 min. USA. 2004. Adulti.

Joel (Jim Carrey) si sveglia un bel giorno con l’irresistibile impulso di non andare al lavoro, ma di prendere il treno per Montauk. Lì conosce Clementine (Kate Winslet). Pur non essendosi mai visti prima, i momenti che passano insieme riaccendono dei ricordi, quasi avessero precedentemente vissuto insieme. Dopo circa venti minuti di film compaiono i titoli di testa, e tutto diventa caos, confusione e genialità: esiste una ditta che ha brevettato una procedura medica per cancellare i ricordi di una persona. Joel e Clementine sono coinvolti, a loro insaputa, nel progetto.

Se mi lasci ti cancello è un labirinto creato dallo sceneggiatore Charlie Kaufman (Being John Malcovitch, Adaptation) che esplora di nuovo il cervello e l’anima umana. C’è un certo fascino in una complessa e interminabile serie di incontri e disaccordi, un riassunto della vita e la storia d’amore della coppia, dove non ci sono frontiere di tempo e di spazio. Ne esce una narrazione frammentaria, ai limiti della realtà, che mantiene una strana coesione proprio grazie alla logica della storia d’amore che coinvolge lo spettatore, dando coerenza ad una dimensione inverosimile. Un film non pienamente riuscito, ma notevole e attraente come esperimento formale, pur con alcuni particolari grossolani nelle storie secondarie, nonché alcune cadute di tensione e di ritmo. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Shall we dance?

30/10/2004. Regista: Peter Chelsom. Sceneggiatura: Audrey Wells. Interpreti: Richard Gere, Jennifer Lopez, Susan Sarandon, Stanley Tucci, Bobby Cannavale. 106 min. USA. 2004. Giovani.

Padre di famiglia, avvocato, con due figli, il protagonista ha solo motivi per essere felice… ma non è felice. Il giorno del suo compleanno, malgrado l’ambiente festoso che invade casa sua, non può evitare un sorriso forzato. Le cose cambieranno grazie a un volto altrettanto triste: quello di una maestra di una scuola di ballo, che vede tutti i giorni dal suo vagone di metro. Un giorno scende e, senza pensarci, si iscrive a lezione di ballo. Nasconde la decisione alla famiglia e, quella che all’inizio era curiosità verso una donna attraente, si trasforma in passione per il ballo, e allegro cameratismo con alunni e maestri di quella scuola.

Irrimediabilmente romantico, costituisce il remake di un film giapponese del 1997, a firma Masayuki Suo. La presenza di un regista di personalità, Peter Chelsom, consente di evitare di imbattersi in un prodotto sdolcinato. Con forza, si mette subito in chiaro che i problemi di casa propria non si risolvono avendo un affaire con la vicina della porta accanto. Ma il movente per superare le personali insoddisfazioni, la passione per il ballo, appare troppo debole, anche se arricchito da nuove amicizie e dalla riscoperta dei valori insiti nella propria famiglia. Pienamente riuscito il cast, tanto nel trio protagonista (Gere, Lopez, Sarandon) come nei personaggi secondari (Stanley Tucci, inatteso ballerino latino; Lisa Ann Walter, ballerina di peso, Richard Jenkins, il detective). José María Aresté. ACEPRENSA.

La vita che vorrei

Regia: Giuseppe Piccioni. Sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Linda Ferri, Gualtiero Rosella. Protagonisti: Luigi Lo Cascio, Sandra Ceccarelli, Galatea Ranzi. Italia 2004. Durata: 125'.Genere: Drammatico. Adulti.


Il regista Luca sta preparando un melodramma in costume, nuova versione della storia di Margherita Gautier. Stefano è un attore affermato, serio e molto professionale; Laura, più intensa e passionale, è un'aspirante attrice che a trent'anni ancora non ha avuto una parte importante. Vengono messi insieme per fare un provino e Stefano, dapprima scettico, si sente incuriosito ed interessato a quella donna così diversa da lui.....

La storia si sviluppa su almeno tre piani. Il mondo del cinema, ricostruito con grande dettaglio: le lunghe ore passate con la sceneggiatura in mano a provare e riprovare la parte; le gelosie, le rivalità sul set tenute a freno da un padre-regista; i ricevimenti mondani che sono un pretesto per farsi conoscere e cercare nuove opportunità di lavoro. Poi c'è il mondo privato, passato spesso in una camera d'albergo, a volte con un amante utile per la propria carriera (lei) o semplicemente per non passare la notte da solo (lui). Infine il mondo ricostruito sul set , un ottocento dove si parla e si agisce in un modo che oggi fa sorridere: una passione amorosa che tutto travolge , fino alla perdita della dignità; un altruismo fino al sacrificio di sé. Stefano e Laura si incontrano, si conoscono mentre si spostano continuamente fra realtà e finzione e si innamorano l'uno dell'altra.

I presupposti ci sono tutti per lo sviluppo di un grande amore ma non siamo nell'ottocento e i sentimenti sono fragili, sono soffocati da mille ostacoli che non provengono più dall'esterno come nel caso della Signora delle Camelie, ma da dentro di sé. L'ambizione professionale viene posta dinanzi a tutto, manca la generosità per riuscire ad accettare il passato dell'altro, c'è troppo orgoglio per riuscire ad esser il primo a dichiararsi. Mentre le riprese del film vanno avanti e si sta consumando nella finzione la tragedia di un amore impossibile, sul piano della vita reale grandi slanci di affetto si alternano a momenti di incomprensione, senza che il loro amore trovi un saldo punto di appoggio.

Anche se Piccioni ha scelto per la sua storia un ambiente certamente difficile come quello del cinema, possiamo riconoscere nel suo racconto molte di quegli elementi che spesso, quando un uomo ed una donna si incontrano, non ci fanno parlare di amore ma più propriamente di amicizia sessuata: senso di affinità ed attrazione reciproca dove però nessuno è disposto a mettersi in gioco, a soffrire e a darsi incondizionatamente. Anche se il finale sembra adombrare una tenue speranza, il regista, presentandoci sullo sfondo un mondo ottocentesco, ha voluto esprimere, in modo quasi pudico, la sua preferenza per un diverso tipo di amore. Piccioni gestisce con grande maestria l'architettura complessa della storia, sorretto da una solida sceneggiatura e dirige con abilità i due protagonisti anche se il personaggio della Ceccarelli raggiunge una più compiuta espressività , mentre quello di Lo Cascio appare più bloccato. Franco Olearo. Per gentile concesione di FAMILYCINEMATV.

Valori/Disvalori: Paradigma di un tipo di amore moderno, incapace di superare la barriera dell' orgoglio personale, della rivalità professionale, della mancanza del coraggio per darsi totalmente, sullo sfondo di un amore vero ma ormai relegato nel passato remoto

Si suggerisce la visione a partire da: Adulti. Alcune scene di incontri sessuali occasionali. Nudità parziali.

Giudizio tecnico: ****. Eccellente sceneggiatura. Accurata regia. Intensa recitazione della Ceccarelli. Non a suo agio Lo Cascio

Se devo essere sincera

Regia: Davide Ferrario. Sceneggiatura: Luciana Littizzetto e Anna Pavignano. Interpreti:Luciana Littizzetto, Dino Abbrescia, Neri Marcorè. Durata: 105. Italia 2004. Genere:Commedia. Adolescenti.

La vita di Adelaide, insegnante di lettere al liceo, sposata con un istruttore di scuola guida e madre di una bimba di otto anni, scorre senza scosse né entusiasmi, finché l’omicidio di una collega non porta nella sua vita il commissario di polizia Gaetano. E Adelaide, che ha sempre aborrito le bugie, si lascia condurre dalle indagini in un breve e gioioso tradimento, che finirà pure per farle riconquistare le attenzioni del marito.

Davide Ferrario, regista l’anno scorso del delicato Dopo mezzanotte, si ritrova ancora una volta a filmare Torino e lo fa ancora una volta con amore, mettendosi al servizio, però, di una storia altrui, molto più rumorosa e solare di quella che l’ha preceduta, ma con in comune la centralità di un triangolo affettivo.

La sceneggiatura di Se devo essere sincera, scritta dalla stessa protagonista Luciana Littizzetto in collaborazione con Anna Pavignano, autrice del fortunato Casomai di D’Alatri, si ispira ad un romanzo giallo-rosa della scrittrice Margherita Oggero, ma si concentra molto più sugli intrecci sentimentali che sulla trama gialla, che appare, per la verità, poco più di un pretesto per concentrarsi sulle avventure di Adelaide e sulla sua scoperta dei benefici effetti delle bugie e dei tradimenti coniugali.

La brillante professoressa, infatti, si trova ben presto coinvolta, per la sua curiosità e intraprendenza, nelle indagini sulla morte di una collega appena arrivata a scuola, ma soprattutto in una schermaglia amorosa con il commissario incaricato delle indagini, un napoletano sornione e dongiovanni, che si propone da subito per un’avventura a breve termine. E Adelaide, che in vita sua non ha mai mentito, scivola a poco a poco nel mondo della bugia, finendo per far ingelosire il distratto marito (fornito a sua volta di amante esteuropea), incuriosire l’amica del cuore e far arrabbiare la saccente figlioletta.

A parte le prime difficoltà a far incastrare i vari pezzi della sua vita, infatti, Adelaide scopre ben presto che il tradimento può essere l’ingrediente giusto per far ripartire un matrimonio stanco.

Perdonandoci l’ardita analogia hegeliana, alla tesi di un matrimonio stanco, si contrappone, ma solo in apparenza, l’antitesi di un tradimento inteso soprattutto come rottura delle convenzioni, ma destinato ad essere assorbito nella sintesi della coppia nuovamente e più solidamente cementata.

Alla fine Se devo essere sincera si trasforma in un’allegra apologia del tradimento, che si rivela la terapia migliore per risvegliare gli istinti assopiti di due coniugi che, a furia di troppa verità, hanno finito per considerarsi a vicenda scontati. A farne le spese il terzo incomodo, utilizzato come il motore di un rapporto che inevitabilmente lo esclude, così alla fine, non resta nemmeno l’alone romantico del sentimento a consolare l’amante, che è ridotto ad un ricostituente emotivo o a diversivo eccitante in una vita troppo piatta e banale.

Alla fine, insomma, ci si rimette insieme, non tanto perché si è perdonato (grazie alle terapeutiche bugie il momento della verità non arriva mai), ma perché in fondo va bene così. La verità è che, nella società attuale, la fedeltà e una seria e reale permanenza di rapporto tra due persone sposate è considerata così impossibile da non poter essere neppure presa in considerazione come alternativa drammaturgica e da questo punto di vista lo scadimento verso il pessimismo rispetto al precedente script della Pavignano è piuttosto significativo.

Luciana Littizzetto, comunque, dimostra di saper recitare e non è colpa sua se di fatto il suo passato di cabarettista finisca per fa sì che il suo personaggi sia quello meno inserito nella trama del film e corra sempre il rischio di stagliarsi solitario come una gag a teatro sullo sfondo degli altri protagonisti (tutti piuttosto bravi). A dare credibilità alla normalità e all’ambiente in cui Adelaide, la sua famiglia e i suoi amici si muovono contribuisce anche la regia di Ferrario e la fotografia di Torino, capace di rendercela familiare e quotidiana come la strada dietro casa nostra, ma nello steso abile a coglierne la bellezza più intima e discreta e quelle sottili differenze di classe e di ricchezza che si giocano nell’esterno di una casa o nell’architettura di un cortile.

Il risultato è una commedia brillante (genere tra i più difficili da scrivere e in genere poco praticato in Italia), che si lascia guardare e offre parecchio divertimento, con una nota di merito anche alle musiche, azzeccatissime, piacevoli e coinvolgenti. Laura Cotta Ramosino. Per gentile concesione di FAMILYCINEMATV.

Elementi problematici per la visione: qualche scena moderatamente sensuale

Valori/Disvalori Una strana ed allegra apologia del tradimento, visto come terapia per rinsaldare l'unione matrimoniale

Si suggerisce la visione a partire da: Adolescenti. Per qualche scena moderatamente sensuale

Giudizio tecnico: ***. Il regista Ferrario (Dopo mezzanotte) ritorna a raccontarci di Torino con una commedia brillante. Tutti bravi gli attori ma la Lizzitetto non riesce ad allontanarsi dalla sua formazione cabarettistica.

Io robot

16/10/2004. Regista: Alex Proyas. Sceneggiatura: Jeff Vintar, Hillary Seitz, Akiva Goldsman. Interpreti: Will Smith, Bridget Moynahan, Alan Tudyk, James Cromwell, Bruce Greenwood. 115 min. USA 2004. Nei cinema in Italia dal 22 ottobre. Giovani.

Forse a causa dell’esasperato scientismo, i racconti futuristi del russo-americano Isaac Asimov, trasposti per cinema, sono stati pochi e hanno ottenuto scarso successo. Basti ricordare L’uomo bicentenario (1999), di Chris Columbus. Ma eccoci di fronte ad un’inversione di tendenza con Io, robot, versione assai libera della collana di racconti dallo stesso titolo, impreziositi dalla sceneggiatura originale di Jeff Vintar.

Nella Chicago del 2035 i robot realizzano con normalità molti compiti domestici, in base alle tre leggi della robotica che impediscono loro di attaccare gli umani. Ma alla vigilia del lancio massiccio di un nuovo e sofisticato robot, muore il Dr. Alfred Lanning, massimo esperto mondiale di robotica.

Tutti credono che Lanning si sia suicidato, tranne Del Spooner, testardo poliziotto di colore, che il Dr. Lanning aveva dotato di un braccio bionico, in seguito ad incidente. Spooner, che odia i robot, accusa della morte del Dr. Lanning uno dei suoi androidi, Sonny, prototipo intelligentissimo che sfugge in modo spettacolare alla caccia della polizia. Aiuterà Spooner la Dottoressa Calvin, psicologa esperta in intelligenza artificiale.

In primo luogo, bisogna elogiare l’eccellente direzione artistica di Patrick Tatopoulos e la vibrante regia dell’australiano di origine egiziana Alex Proyas (Il Corvo, Dark City), per la suggestiva messa in scena. Soprattutto, appaiono sbalorditivi gli effetti speciali, da antologia, della Digital Domain, società creata da James Cameron per Titanic. Grazie ad essi, il film offre numerose impressionanti sequenze e, in primis, un personaggio digitale memorabile, il robot Sonny. La sua gestualità e capacità drammatica -in virtù del lavoro dell’attore Alan Tudyk- si possono paragonare al magistrale Gollum de Il Signore degli anelli.

Da parte sua, Will Smith limita le abituali gags allo stretto necessario, per dar respiro all’azione e al dramma. In tal senso, il film fa passare in secondo piano la scarsa originalità del copione, grazie ad appropriate riflessioni sulle implicazioni morali dell’intelligenza artificiale, criticando l’economicismo senz’anima e la mitizzazione della scienza. Ne risulta un film interessante e inquietante, alla stregua di A. I. Intelligenza Artificiale e Minority Report, di Spielberg. Unico neo, un paio di sciocche concessioni erotiche. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovanni. Contenuti: V, X--, D. Qualità tecniche: *** (MUNDO CRISTIANO)

King Arthur

16/10/2004. Regista: Antoine Fuqua. Sceneggiatura: David Franzoni. Interpreti: Clive Owen, Keira Knightley, Stephen Dillane, Ioan Gruffudd, Stellan Skarsgaard, Hugh Dancy. 130 min. USA, Irlanda. 2004. Adulti.

Il regista di Training Day e L’ultima alba dirige una versione alquanto libera della saga di Re Artù, con sceneggiatura di David Franzoni (Il Gladiatore, Amistad). Al produttore, Jerry Bruckheimer (La maledizione della prima luna, Black Hawk down), è venuta l’idea di prendere un regista capace di snellire il romanticismo di cui è impregnata la nota saga, imprimendo alla storia un timbro di forte e carico realismo storico, come in The Wild Bunch (Il Mucchio selvaggio) di Sam Peckinpah, sulla scorta dei film di guerra contemporanei.

Gli storici sostengono che il racconto di re Artù sia pura leggenda, ma -certo con eccessive pretese- Fuqua, Franzoni e Bruckheimer ribattono che essa rispecchi un eroe reale, diviso tra le proprie personali ambizioni e il senso del dovere. Si tratta di Lucius Arturus Castus, generale romano nato in Britannia, appartenente alla stirpe dei Sarmati. Si tratta di fantastici cavalieri russi, reclutati da Marco Aurelio, dopo averli vinti nella battaglia di Vienna, del 175 d.C.

In Britannia spetta all’esercito di Castus tener a bada i feroci Sassoni, che premono contro il Vallo di Adriano. Duri e crudeli, i cavalieri di Castus erano odiati e temuti dai nativi Woads, comandati da un misterioso mago, Merlin, al quale si accompagna una bella e agguerrita giovane: Ginevra. Nel V secolo d.c. lo splendore di Roma inizia a svanire, l’impero crolla. Le orde barbariche attaccano le frontiere del vasto impero. In Britannia, i Sassoni si preparano a sferrare l’attacco finale da nord e da est.

Fuqua inizia con vigoria e grandiosità la storia, sulla falsariga de Il Gladiatore: nebbia, fango, eroici discorsi (un po’ retorici: fratelli, libertà, forza, onore). Il prosieguo del film mette a nudo l’insufficiente caratterizzazione dei personaggi, che senza dubbio ne è il difetto principale. Tuttavia lo spettacolo è capace anche di impennate decisamente riuscite. Colpisce il sorprendente peso attribuito alla Chiesa, nella direzione politica dell’Impero. Una fantasia del tutto in contrasto con la versione originale della saga, annovera prima Artù tra i pelagiani, per poi farlo evolvere verso lo sciamanismo quando Pelagio, che difendeva una libertà considerata pericolosa dalla gerarchia cattolica, viene eliminato dal Papa. Difficile non dedurre che questi spettacoli di massa, voluti da produttori ebrei -Bruckheimer lo è- si assomigliano l’uno l’altro nel comune intento di denigrare comunque il cattolicesimo. Conviene chiarire che il principale consulente storico della sceneggiatura di Franzoni, è tale Edwards, scrittore inglese propugnatore di cabala, marziani e storie segrete sui figli di Gesù, e altre congerie simili.

Nel campo degli attori, tutti fanno il loro dovere. Specialmente Keira Knightley, che deve interpretare una Ginevra perennemente esasperata. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V+, X, D, F. Qualità tecniche: ** (MUNDO CRISTIANO)

Collateral

16/10/2004. Regista: Michael Mann. Sceneggiatura: Stuart Beattie. Interpreti: Tom Cruise, Jamie Foxx, Jada Pinkett Smith, Mark Ruffalo. 120 min. USA. 2004. Giovani-Adulti.

A 61 anni, è evidente che Michael Mann appare regista di grande esperienza. L’ultimo dei mohicani, Heat-La sfida, Insider-Dietro la verità e Alì, ci confermano che, oltre a saper girare molto bene le scene di azione, Mann è capace di un vigore narrativo eccellente, anche in films non pienamente riusciti, per mancanza di ritmo.

L’idea originale dello sceneggiatore di Collateral, l’australiano Stuart Beattie (La maledizione della prima luna), non era di entrare nella mente di un killer professionista. Questa è storia assai nota, esibita troppe volte. Qui, parte da una situazione comune e quasi universale. Chi non ha fatto amicizia con un tassista? Uno spazio ridotto -l’abitacolo di una macchina- due sconosciuti, una conversazione.

Le buone storie però bisogna raccontarle bene, e questo dipende dalle opzioni scelte. Beattie dimostra ancora la sua abilità nel raccontare storie. Max (un grande Jamie Foxx) è da dodici anni tassista a Los Angeles. Fa il turno di notte perché c’è meno traffico e i clienti sono più generosi con le mance, anche perché arrivano a destinazione prima del previsto. Visto dallo specchietto, il sedile di dietro si trasforma, alle volte, in un confessionale. Vincent (Tom Cruise, solido come sempre) è un killer professionista e ha un lavoro da compiere.

Un eccellente cast si coniuga con un team tecnico di prima categoria. Ne viene fuori un film molto fluido, spesso capace di toccare livelli straordinari, abile nell’eludere con grande mestiere gli ostacoli tipici di storie centrate in ambienti limitati e ripetitivi (mi viene in mente un film molto simile, l’interessante Scene da un crimine, dell’esordiente Dominique Forma).

Mann ha posto il suo sigillo su un magnifico thriller psicologico, ambientato in una delle città più celebri del cinema, una magnetica megalopoli notturna che l’australiano Dion Beebe (Chicago, Charlotte Gray) e il canadese Paul Cameron (Il fuoco della vendetta, Fuori in 60 secondi) riproducono in modo straordinario, ricorrendo a diverse camere digitali di ultima generazione, con cui si è girato l’80% del film. La musica di Newton Howard (brillante nel The Village) non è all’altezza del superbo lavoro di montaggio e disegno di produzione. Ma insisto, quello che è davvero eccellente è proprio la sceneggiatura. Alberto Fijo. ACEPRENSA.