Fahrenheit 9/11

31/07/2004. Regista: Michale Moore. Intervengono: Michael Moore, George W. Bush, John Tanner. Fotografia: Mie Desjarlais. Colonna sonora: Jeff Gibbs. Documentario.121 min. USA. 2004. Uscita cinema Italia: 27 agosto.Adulti.

Sono quindici anni che Michael Moore fa sfoggio di aggressività attraverso libri, trasmissioni polemiche a TV Nation e The Awful Truth, o documentari come Roger&Me, The Big One o Bowling for Colombine, vincitore -quest’ultimo- del premio Oscar 2003. Adesso prosegue la sua personale campagna anti-Bush con Fahrenheit 9/11, saggio cinematografico vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2004, fatto apposta per accendere gli animi.

Questa volta Michael Moore mette sotto inchiesta la legalità del trionfo di Bush alle presidenziali del 2000, mettendo alla berlina il patetico sconcerto presidenziale alla notizia degli attentati dell’11 di settembre. Non si ferma certo qui: svela anche gli interessi commerciali che legano le famiglie di Bush e Bin Laden, presentando la guerra in Iraq come sanguinario apparato ideato per tener desta la paura diffusa negli Stati Uniti e mascherare così il fiasco della lotta contro Al Qaeda, a tutto vantaggio di biechi intrallazzatori finanziari e mercanti d’armi.

Il regista, noto per la sua pinguedine, sfodera l’ennesimo film a metà tra l’umorismo dell’assurdo e la catarsi tragica, ricorrendo ad immagini, testimonianze, gags e sequenze fantasiose di alto interesse giornalistico, quasi tutte capaci di cogliere nel segno, assemblate in un montaggio molto agile, per di più con l’ausilio di una splendida colonna sonora. Inoltre, Moore appare molto meno del solito sullo schermo, così che il film ne trae decisamente vantaggio.

Tuttavia, l’irruente regista del Michigan esagera nella caricatura di Bush e del suo staff, ricorrendo a seduzioni di tipo sentimentalista, elettorale e manipolatorio, al momento di parlare della guerra dell’Iraq. Questi artifici, propri della libellistica, inquinano il rigore delle argomentazioni proposte da Moore, destando dubbi nei suoi scarsi accenni ad Israele, a proposito della politica estera degli Estati Uniti.

In realtà, Michael Moore non è documentarista imparziale, alla ricerca di una visione completa e ponderata della realtà. Ma appare piuttosto nei panni di un lucido e irritante commentatore politico, che utilizza il cinema con lo stesso talento, sfacciataggine e soggettivismo usato per un programma televisivo, un libro o un editoriale. È necessario, dunque, puntualizzare quanto sopra non solo per tributare omaggio alle capacità di Moore come commentatore cinematografico, ma anche per rilevare i gravi limiti di documentarista. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

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