Funny games

12/7/2008. Regista: Michael Haneke. Sceneggiatura: Michael Haneke. Interpreti:Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt, Devon Gearhart, Brady Corbet, Boyd Gaines. 111 m. Gran Bretagna, USA, Francia, Austria, Germania, Italia. 2007. Adulti. (VD)

Nel 1997, al festival di Cannes, Michael Haneke presentava Funny Games. Il film vinse un premio secondario, quello della critica internazionale, provocando un serrato dibattito tra sostenitori e detrattori. L’edizione in dvd è stata ben recepita, forse perché il film era stato proiettato -nelle sale dell’epoca- per un periodo troppo breve; o anche, perché fa davvero bene vedere questo film, sapendosi sicuri a casa propria, con il telecomando a portata di mano. Intervistato per l’occasione, Haneke ha esposto il suo pensiero in proposito. Ciò che si riprometteva, con questo film, era una critica al modo in cui i media -specialmente il cinema- tematizzano la violenza.



In quell’intervista -davvero illuminante- il regista tedesco sviluppa la sua teoria (quanto sanno risultare malvagi gli esseri umani, ossessionati dalla necessità di saziarsi di violenza) e conclude con una frase che condivido pienamente: val la pena vedere questo film, soltanto se esiste un fondato motivo. Altrimenti, di fatto, è un’autentica tortura per lo spettatore.

Tesi e spiegazioni a parte, è chiaro che Haneke è sedotto dal tema della violenza. Lo ha dimostrato in molti altri film: da Benny’s video (quasi una sorta di prima versione di Funny Games, con identico protagonista) a La pianista. Questo regista si compiace di indugiare nella mente tormentata e carente di senso di un assassino. A tal punto, che potremmo perfino dubitare che intenda davvero mettere alla gogna la violenza…

D’altra parte, bisogna riconoscere che Haneke rivela una certa maestrìa filmica. Riesce a realizzare montaggi, capaci di estenuare i nervi alla gente. Sa poi miscelare il contrasto -tra tono drammatico e comico- in modo assai efficace, che la durata lentissima delle sequenze è idonea a calamitare… Ma tutto questo, a che pro? Se già se lo chiedeva lo spettatore del 1997, a maggior ragione quello attuale. Perché, dieci anni dopo, Michael Haneke gira esattamente lo stesso film: la stessa storia di una famiglia agiata in ostaggio, torturata in modo selvaggio da due giovani, apparentemente normali? Stesse inquadrature, stessi dialoghi, identico ambientamento temporale. Cambiano solo gli attori. Perché dunque Haneke realizza questo remake di sé stesso, se non guadagnar soldi negli States, e cercare di farne guadagnare a Naomi Watts che, a parte il fatto di non trovarsi a suo agio nel film, lo coproduce? La verità è che, a suo tempo, erano state davvero pregevoli le recitazioni della versione originale (Susanne Lothar e lo scomparso Ulrich Mühe).

Haneke ha forse voluto ripetersi, perché la sua versione inglese è più universale e la reazione del pubblico diversa, dopo film come Saw e Hostel. Ragioni che suscitano però perplessità, in una persona che suscita perplessità. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, D (ACEPRENSA)

Nessun commento: