La fabbrica di cioccolato

1/10/2005. Regia: Tim Burton. Sceneggiatura: John August (dal romanzo di Roald Dahl). Interpreti: Johnny Depp, Freddie Highmore, David Kelly, Helena Bonham Carter, Noah Taylor, Missi Pyle. USA, UK, Australia. 2005. 115 min. Giovani.

C’è chi dice che si può giudicare un film dalle battute iniziali, dai primi venti minuti. Se questa affermazione –molto discutibile- fosse vera, la versione realizzata da Tim Burton (Il mistero di Sleepy Hollow, Ed Wood) del classico per l’infanzia di Roal Dahl, dovrebbe risultare quasi un capolavoro. Infatti, l’inizio è magnifico: dai primi secondi, in cui i titoli emergono da certe macchine minacciose che fabbricano cioccolatini, fino alle prime immagini della famiglia, povera ma incantevole, di Charlie. Anche se si tratta di adattare una favola, Burton riesce a coinvolgere lo spettatore, suscitando -insisto, questione di minuti- molti sentimenti: tensione e inquietudine per la ricerca del desiderato biglietto dorato, emozione davanti alla generosità e all’affetto della famiglia Bucket, nonché divertimento, non esente da qualche sfumatura di amara ironia, nella presentazione dei patetici bambini che accompagnano Charlie alla visita della fabbrica. Il film raggiunge il suo maggior impatto visivo, poco dopo: con l’ingresso nel territorio di Willy Wonka. Burton riesce a non deludere le immaginazioni più fervide, grazie a spettacolari scenografie fatte a mano che ricostruiscono la fantastica fabbrica di cioccolata.

È difficile mantenere tale livello di eccellenza troppo a lungo, e dopo questo promettente inizio, il film perde un po’ di slancio. La narrazione si fa più lenta e un po’ ripetitiva. Le successive squalifiche seguono lo stesso schema e sarebbe stato gradito se qualche bambino fosse stato espulso senza canzonetta. Una volta terminata la perlustrazione della fabbrica, il film riguadagna decisamente quota recuperando il livello iniziale. Per tutto il film, recita con vivacità un cast ben azzeccato, specie grazie a Depp e Highmore (Neverland-Un sogno per la vita).

Malgrado i limiti del film, che non arriva ad essere così ben rifinito come Big Fish, non c’è dubbio che il carismatico Burton era la persona giusta per adattare la favola di Dahl. Infatti, quale ammiratore dello scrittore, non è la prima volta che Burton trae spunto dalla sua opera. Da produttore, ne aveva già adattato il racconto: James e la pesca gigante.

Forse per questa sintonia con Dahl, Burton ha saputo cogliere in modo fedele lo spirito originario e, al contempo, ha saputo aggiungervi alcune caratteristiche tipiche del suo cinema –fantasia, ironia, tenerezza verso i personaggi ed una certa propensione all’assurdo- con tale naturalezza, che ci sono momenti in cui si esita, se attribuirne il merito al romanzo, o invece al copione cinematografico. Per di più, quando uno rilegge il racconto, nota con stupore due innovazioni apportate dal film, che da un parte si inventa un passato per il papà di Willy Wonka e, dall’altra, introduce un discorso di Charlie a difesa dell’unità della famiglia, ben al di sopra di qualsiasi valore venale. Sono due pennellate d’artista, molto vincolate alla biografia di Burton che, invece di diluire il messaggio del racconto, vi aggiunge forza: è un classico esempio di quanto vale un buon adattamento. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

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