18/09/2004. Regista: Alejandro Amenábar. Sceneggiatura: Alejandro Amenábar. Interpreti: Javier Bardem, Belén Rueda, Lola Dueñas, Celso Bugallo, Mabel Rivera, Tamar Novas, Clara Segura. 125 min. Spagna. 2004. Adulti.
Dopo il successo nazionale e internazionale di Tesis, Apri gli occhi e The Others, in Mare dentro il regista spagnolo Alejandro Amenábar ricrea in chiave agiografica la fase terminale della vita del tetraplegico Ramón Sampedro, suicidatosi nel 1998, dopo aver difeso davanti ai tribunali, per diversi anni, un presunto diritto a morire. Questo film premiato con il Leone d’argento e il gran premio speciale della giuria al miglior attore alla Mostra del Cinema di Venezia, pretende enfatizzare il dibattito sull’eutanasia.
Ramón Sampedro, nato in Spagna nel
Dopo la morte, l’erede ha cercato di tenere aperto il caso Sampedro e ha querelato lo Stato spagnolo, davanti al Tribunale di Strasburgo, per “lesione del diritto alla vita privata”. Ma Il Tribunale ha dichiarato innammisibile
La prima cosa che impressiona, nel film, è la notevole regia di Alejandro Amenábar. Girate in ordine cronologico, quasi tutte le interpretazioni risultano di gran valore. Forse quella di Javier Bardem (premio Coppa Volpi al miglior attore) sorprende meno di quella di Belén Rueda –magnifica nel suo complesso personaggio- o di Lola Dueñas e Mabel Rivera, che incarnano i personaggi più autentici del film.
D’altra parte, Amenábar coinvolge emotivamente lo spettatore anche grazie ad un allestimento molto curato, per lo più realista, senza rinunciare a diversi inserti onirici, alcuni davvero suggestivi. In questi e altri passaggi, la pianificazione dell’insieme e il montaggio risultano sempre di gran spessore, esaltati dalla bella fotografia di Javier Aguirresarobe e dalla coinvolgente colonna sonora, opera dello stesso Amenábar, sempre efficace, anche se talvolta troppo enfatica. Una menzione a parte merita il prezioso tema di musica celtica, ricorrente nelle fasi culminanti (c’è la collaborazione di Carlos Núñez), come pure la maestrìa di trucco di Jo Allen, capace di cambiare connotati a Javier Bardem.
Tale spettacolare dimostrazione dell’espressione audiovisiva, si fonda su una trama brillante, emotiva e al contempo perfino divertente, che descrive i rapporti familiari e di amicizia di Sampedro. Tuttavia, appare molto ideologico, talvolta anche spudoratamente sentimentale nell’apologia dell’eutanasia. Al riguardo, i passaggi più sgradevoli sono relativi alla comparsa di Sampedro davanti ai tribunali -di fronte a giudici caricati a tinte fosche-, nonché la visita a Sampedro di un gesuita, tetraplegico come lui, totalmente gratuita e inventata, sviluppata in modo così paradossale e crudele, da svelarne la settaria prospettiva anti -cattolica.
Tale deriva ideologica si vede anche negli idillici profili esistenziali dello stesso Sampedro, il cui fulgido esempio di santitá laica, si incrina in due sole manifestazioni dove prevale il cattivo umore. Anche i due rappresentanti dell’associazione pro-eutanasia DMD (Diritto a Morire con Dignità) esibiscono un equilibrio psicologico esemplare, una serenità intelligente e pure divertente. Anzi, si ergono a difensori della natalità in un’apposita scena carica di sentimentalismo, ma incoerente con l’insistenza di Sampedro a togliersi la vita.
Simili spunti sentimentali affiorano anche nelle due storie d’amore che il copione inserisce intorno a Ramón Sampedro. In una, la protagonista è Julia (Belén Rueda), l’avvocatessa che lo assiste nella lotta legale, a sua volta affetta da una malattia degenerativa. Nell’altra è Rosa (Lola Dueñas), povera ragazza di paese, maltrattata dagli uomini, che trova in Sampedro un’inattesa ancora di salvezza. Tali vicende secondarie, introdotte da Amenábar, ci impediscono di chiarire quale sia la logica di Sampedro. Infatti, nonostante le numerose ragioni per vivere, che tali intermezzi sentimentali inducono a supporre, il protagonsista insiste nel voler morire, ribadendo macchinalmente l’unico messaggio: “Non mi giudicate. Se mi volete veramente bene, rispettate la mia libertà e aiutatemi a morire”.
In realtà, il film difende un concetto di libertà inteso come autonomia personale, quasi priva di confini, morali e legali, controllata soltanto dalla soggettività assoluta della coscienza. Lo ha sintetizzato molto bene lo stesso Bardem quando ha così definito il suo film: “È la storia di una persona il cui unico Dio è la propria coscienza, che rende l’uomo più libero e più umano”. Ma non si comprende perché tale elogio della coscienza non dovrebbe riguardare, allora, anche un kamikaze o un seguace di una setta, che si suicida per ottenere un’ipotetica vita migliore nell’aldilà. Infatti, la convinzione più profonda può in tal caso essere compatibile con la mancanza di autocritica.
È chiaro che, per non turbare tale illimitata autonomia, non si riflette sulle possibili deformazioni della coscienza. Si elude anche la possibile componente patologica dell’ossessione di Ramon Sampedro di voler morire, sorvolando sul difficile problema delle ripercussioni negative del suo atteggiamento su altri tetraplegici e malati gravi. In breve, l’argomento principale consiste nel giudicare indegna la vita da tetraplegico.
Proprio sulla questione del senso dell’amore e della sofferenza, si vede in modo lampante la debolezza dell’antropologia e della morale su cui poggia la decisione di Sampedro, condivisa dal film. Così come viene descritto, il protagonista parte da un concetto di felicità materialista e individualista: quando si scontra con la menomazione fisica, è incapace di dar senso alla vita e all’amore, perché entrambi risulteranno marcati per sempre dalla sofferenza. Questa impostazione di Sampedro è smentita ogni giorno da migliaia di persone in tutto il mondo, totalmente dipendenti da altre e assai menomate fisicamente, che non hanno tuttavia perso la gioia di vivere e lottare, né la capacità di lavoro, né il senso della solidarietà, che arricchisce e perfino santifica il proprio dolore.
In definitiva, tutto questo insieme di conflitti, basati su tesi apparentemente ovvie, deformati o irrisolti, non fa che penalizzare la qualità formale e interpretativa del film, inducendo a inquisire sulla reale autenticità dei personaggi e sulla vera entità drammatica ed etica dei loro conflitti. Inoltre, fa scalpore che si parli con tale superficialità e leggerezza di “vite che non meritano di essere vissute”. Fino ad oggi soltanto certi filosofi del III Reich hanno teorizzato sulle “vite umane prive di valore vitale” (“das lebensunwerte Leben”): vittime, più tardi, degli stessi programmi nazisti di eutanasia ed eugenetica. Dimentichiamo troppo facilmente il passato. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.
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